Bilancio di Cannes 2016: chi esce con le ossa rotte, chi abbiamo scoperto e chi ha trionfato

Con la fine del Festival di Cannes 2016 salgono a galla truffe e scoperte, promesse mantenute e grandi delusioni

Critico e giornalista cinematografico


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Ogni anno quando il festival di Cannes annuncia i suoi film tutti rimaniamo ammaliati dalla sfilata di nomi eccellenti, i grandissimi cineasti tutti riuniti sotto un unico brand, quello della palma dorata. Quest’annata non era da meno. Tuttavia raramente ci ricordiamo come poi a fine festival molti di questi nomi altisonanti salta fuori che non avevano film all’altezza della loro fama e che quindi la presenza in selezione è più utile a scatenare quello stupore ed eccitazione iniziali, che all’aver davvero preso i migliori film in circolazione.

Cannes vuole avere Pedro Almodovar, Park Chan Wook e Ken Loach, vuole Sean Penn e Nicolas Winding Refn a tutti i costi, anche se poi i primi tre presentano film buoni ma di certo non eccezionali e i secondi due hanno da proporre dei pasticcioni che, li avesse fatti un altro, sarebbero stati cestinati. In un festival che è quel che è perché ha a sostenerlo un mercato potente che fa girare più denaro di tutti e ospita venditori e compratori da tutto il globo, l’occasione di venire e comprare i film di nomi così grossi (quelli che di certo incasseranno quindi tutti vogliono avere) è da sola una motivazione per presentarsi.

Di certo possiamo dire che tre registi escono con le ossa rotte. Nicolas Winding Refn doveva dimostrare di essere un regista anche da grande pubblico, di poter bissare l’equilibrio tra stile e narrazione di Drive, ma non l’ha fatto. The Neon Demon, quando uscirà, sarà un bagno di sangue, un tonfo annunciato che pone punti interrogativi grossi sulla carriera di questo cineasta che pareva lanciato a Hollywood. Olivier Assayas tornava con un’attrice di richiamo come Kristen Stewart dopo il bellissimo Sils Maria ma non è riuscito di nuovo ad abbinare richiamo con un film davvero interessante e ha preso fischi. Infine Sean Penn con The Last Face ha messo daccordo tutti con il film peggiore del festival, un disastro insalvabile formalmente e contenutisticamente. A capo della giuria solo qualche anno fa è stato accolto con favore dal festival ma a sberle da chi ha visto il film.

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Dall’altro lato dello spettro per il secondo anno di fila sono i fuori concorso a impressionare davvero. Se l’anno scorso tutti si erano chiesti come mai Inside Out e Mad Max: Fury Road, i film più apprezzati in assoluto del festival, non fossero in concorso, quest’anno lo stesso si può dire per il buon thriller Money Monster, per il bellissimo Il GGG - Grande Gigante Gentile, per il perfetto The Nice Guys e per uno dei film migliori che Woody Allen ha consegnato al cinema negli ultimi tempi: Cafè Society.
Che il tempio del cinema d’autore brilli quando arrivano i film più commerciali è un dato più che significativo, uno che spiega bene come molte barriere, molti pregiudizi e molte fissazioni intellettuali, per fortuna, stiano crollando.

Se si guarda invece al complesso della selezione ufficiale, quella che dovrebbe fotografare cosa sia e di cosa si occupi oggi il cinema più audace, è evidente che è stato l’anno delle grandi scelte e dei dilemmi morali. Sia Sieranevada di Cristi Puiu, sia La Fille Inconnue dei Dardenne (loro sì immancabili e incrollabili, una vera certezza), sia ancora Bacalaureat di Christian Mungiu e infine The Salesman di Asghar Farhadi, avevano al centro dell’intreccio protagonisti posti di fronte a scelte morali difficili e contraddittorie, con cui dover fare i conti.
Il bello è che ognuno di questi ottimi film si muove in un ambiente diverso, con condizioni diverse e pesi differenti sulle spalle dei propri protagonisti. Ogni spettatore può così scegliere quale delle visioni di mondo sia quella più simile alla sua e da quale essere messo in crisi. Questa è davvero la pluralità di sguardo sulla realtà che ogni festival di cinema dovrebbe avere.

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I nostri preferiti sono stati i più estremi, duri e fiammeggianti. Cioè è stato Juste la fine du monde di Xavier Dolan, odiato tanto quanto amato, melodramma eccelso che davvero fa vedere qualcosa di diverso e nuovo. Ma anche American Honey di Andrea Arnold, vera consacrazione per questa regista sempre ad un passo dal capolavoro e qui pienamente in diritto di ritirare (si spera) una palma. E infine ha sorpreso come il 77enne Paul Verhoeven con Elle abbia fatto un film ironico, divertito, arrabbiato e polemico come un ragazzino e abbia trascinato in tutto ciò, in un vortice di stupri, botte, cadute e sagaci ironie Isabelle Huppert.

E gli italiani? Almeno due film sui 5 portati qui possono guardare tutti gli altri a testa alta. Fiore e La Pazza Gioia sono esempi di un cinema coraggioso e unico, capace di raccontare in maniere rischiose ma appaganti storie non convenzionali. Se il film di Virzì unisce come pochi altri potrebbero fare condanna, paura e tenerezza, quello di Giovannesi si inserisce nel solco delle grandi scelte morali le cui conseguenze vanno accettate. Per fortuna saranno nelle sale italiane da subito.

Dunque in quest’edizione che non ha lesinato buoni film al pari delle solite, consuete, inevitabili e fisiologiche truffe, l’unico amaro in bocca lo lascia il fatto che non abbiamo fatto nessuna vera nuova scoperta. Nessun cineasta inedito, nessun film che spiazza tutti, nessun nome che prima non conoscevamo e oggi abbiamo voglia di inserire nell’Olimpo dei grandi.
Per Cannes è una novità.

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