Batman: Arkham City - c'è vita fuori dall'Asylum

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Un’abusata tagline dei Rocksteady Studios paragona l’esperienza di gioco a “essere Batman”, ma ad essere precisi dovrebbe essere “essere il Batman di Paul Dini”...

Ci sono una valanga di buone ragioni per affermare che Batman: Arkham City è uno dei giochi più interessanti dell’anno e insieme uno dei sequel videoludici meglio strutturati e pensati di sempre, ma al di là del perfetto bilanciamento tra azione e strategia nel gameplay (che questo secondo titolo non fa che migliorare e raffinare in minuzia rispetto al già sorprendente Batman: Arkham Asylum, dunque inutile indugiare in ulteriori lodi) è sul contributo di Paul Dini che l’attenzione deve soffermarsi.

Perchè di giochi ben programmati, ben disegnati e ben architettati se ne sono visti (e in questo senso il nuovo Batman non deve temere nessun confronto) ma raramente ci si è trovati di fronte ad una narrazione così complessa, affascinante e stratificata. E che dopo Arkham Asylum la storia si ripeta non può più essere considerato un caso.

Per chi non lo sapesse Paul Dini è l’autore più importante di una delle tante incarnazioni del cavaliere oscuro, quella animata. La sua serie iniziata negli anni ‘90 e in vario modo proseguita nei decenni è una delle migliori di sempre del mondo animato statunitense, nonchè uno dei più fulgidi esempi di come vada trattata la figura dell’alter ego di Bruce Wayne all’interno di un racconto necessariamente seriale.
Già con Arkham Asylum Dini aveva dimostrato di saper maneggiare con cura e sapienza l’universo di Gotham anche in versione videoludica, adattando i topoi e le dinamiche avvincenti legate all’uomo pipistrello ad un racconto puntellato di mille piccole interruzioni. Ora in Arkham City espande quell’idea, allunga quella trama (tutto inizia alcuni mesi dopo la fine del gioco precedente e per molti versi ne riprende le fila) e soprattutto continua a portare avanti la sua personale idea di cosa ci sia nella figura e nelle storie di Batman, al netto dello stile e delle caratteristiche di un dato mezzo espressivo (cartoon, film, fumetto o videogioco), che affascina il pubblico.

Alcuni esempi di magistrale storytelling li vediamo subito, all’inizio del gioco. Dall’incipit sorprendente e immediatamente coinvolgente, al continuo annuncio via radio della presenza dei grandi nomi della storia di Batman (tutti uniti da una rete di relazioni di forza anche più complessa e intrigante di quella che li stringeva nel manicomio criminale) fino al primo confronto con il Joker, lasciato in cattive condizioni alla fine di Arkham Asylum e ora tenuto nascosto quanto più possibile, in un continuo rimando della scoperta del suo stato che sa di grande romanzo.

Ma se il tono cupo e disperato della città di Arkham, un complesso nel cuore di Gotham City in cui il nuovo sindaco ha concentrato tutti i criminali più pericolosi (che dal canto loro hanno creato una città nella città dividendosi le aree come galli in un pollaio), è qualcosa che abbiamo già visto, sono l’umorismo e i toni più leggeri da cartoon a rappresentare il tratto più distintivo di Dini. E che in un gioco simile, così soddisfacente, adulto e spietato, possa avere anche delle tinte degne dell’animazione per ragazzi, è forse il segno migliore della sua salute.

Se Arkham Asylum aveva la forza dell’ambiente claustrofobico, Arkham City proietta tutto quel che c’era di buono all’aperto, moltiplicando lo spazio per mantenere invariata l’equazione: i Gargoyle dei palazzi per appendersi, le strade cittadine per correre, i container d’acqua per nascondersi. Forse proprio l’ampio respiro della città di Arkham, la possibilità di correre, gettarsi dai tetti, planare e arrampicarsi con il rampino (in una paradossale imitazione dei giochi con protagonista L’Uomo Ragno) sono la cifra espressiva più distintiva ed esaltante di questo nuovo episodio di Batman realizzato dai Rocksteady Studios.

Anche stavolta, dei molti possibili referenti cui si può guardare nel momento in cui si affronta la figura di Batman (registi, disegnatori, animatori...) il prescelto in quasi tutte le occasioni sembra essere Tim Burton. Non solo per il tono sghembo di molte inquadrature e i colori che non conoscono vie di mezzo tra il saturo, il neon e il nero profondo, ma anche per un’idea di “terrore” associata alla presenza e all’azione del miglior detective del mondo, che il regista del primo film serio su Batman aveva fatto propria.

In questo senso i battiti del cuore e il conseguente indizio sullo stato d’animo degli avversari (a braccetto con le conversazioni radio intercettate) sono un ottimo esempio.

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