Aspettando BilBOlbul: l'incontro in Accademia con Craig Thompson
Abbiamo seguito l'incontro di Craig Thompson con il pubblico di Bologna organizzato da BilBOlbul...
Carlo Alberto Montori nasce a Bologna all'età di 0 anni. Da allora si nutre di storie: lettore, spettatore, ascoltatore, attore, regista, scrittore.
Com’è nato il progetto per il tuo ultimo fumetto?
Polpette Spaziali è iniziato con questo [mostra la foto che vedete qua sotto]. Un ragazzino di nome Craig, nel 1983, era appena uscito nei cinema Il Ritorno dello Jedi e, come vedete dalla maglietta, mi piacevano gli Ewok. Sullo sfondo ci sono alcuni dei miei disegni, per lo più macchinari e battaglie spaziali, ho voluto portare in questa nuova opera lo stesso entusiasmo e la stessa energia che avevo in quegli anni.Il me stesso di 8 anni è il lettore di riferimento che mi sono immaginato per Polpette Spaziali. La seconda persona del pubblico a cui ho pensato è Violet, la figlia di una coppia di amici che è nata 5 anni fa. C'è una foto in cui si può vedere la bambina a 3 anni a bordo di un triciclone meccanico della Harley Davidson, che mi è stato da ispirazione per la navicella della protagonista, così come il suo vero padre è stato la base su cui ho modellato il personaggio del papà di Violet nel fumetto. Quella bambina è sempre stata ossessionata dalle motociclette, mi ha anche voluto accompagnare nel tour promozionale in America, era molto orgogliosa e diceva a tutti “Questo è il mio libro!”.
I primi studi preparatori per Polpette spaziali risalgono al 1998 ma lo stile iniziale era differente, ora il look grafico è più accessibile, elaborato e colorato.Sì, all’epoca ero un illustratore e il primo pitch professionale che ho proposto alla Dark Horse Comics è stato proprio una versione preliminare di Polpette Spaziali, dove c'era un personaggio simile a Elliot il Pollo e un palloncino che ricorda Zaccheo. Inizialmente Violet assomigliava a un pupazzo, poi è diventata più alta, inoltre ho fatto studi approfonditi per capire come realizzare le astronavi ed elaborare quell’universo narrativo.
Non ti sei mai sentito così attaccato al character design da non volerlo abbandonare?
No, il look del progetto non è mai importante, credo che lo stile della storia definisca l’aspetto che avrà il fumetto. Realizzo ogni opera con lo stesso tipo di pennello e inchiostro fin dall’inizio e prima faccio lo storyboard con una penna a sfera - questa sì, rimane una costante.
Nonostante la lunghezza dei tuoi volumi, ci sono poche ripetizioni, sai gestire molto bene il ritmo e la lunghezza di una scena all'interno del quadro complesso del libro... come fai?Non pianifico tutto dal’inizio, è un processo: quando ho scritto la bozza di Blankets ci ho messo un’ora, ma non sapevo come sarebbe finito, perciò ho cominciato a disegnarlo e gli eventi narrati negli ultimi due capitoli sono avvenuti mentre stavo già realizzando l’opera. Solitamente la prima bozza è rapida: ho scritto quella di Polpette Spaziali in un mese circa, così alla fine sapevo di cosa parlava il fumetto, ne sono consapevole solo quando affronto il secondo trattamento. Poi su ogni tavola ci torno più e più volte. Ad esempio, per creare Blankets, considerando la quantità di tavole, ho ridisegnato tutto per centinaia di volte.
Usi dei modelli o delle fotografie per raggiungere le pose dei personaggi, la qualità e la varietà del movimento?Come vedete dai bozzetti il mio stile iniziale è iper-semplice, li realizzo con la penna sfera; quando poi passo al pennello e all’inchiostro, è come un fiorire del personaggio e dell’immagine, per renderli più gustosi all'occhio del pubblico.
Blankets è stata la prima volta in cui ho affrontato il disegno realistico, prima ero abituato a uno stile cartoon come in Addio, Chunky Rice. Quando non sapevo come fare una scena chiamavo a casa mia i miei amici, gli dicevo come posizionarsi e facevo una bozza, poi il giorno dopo gli mostravo la versione definitiva.Poi ci sono i bozzetti di Raina, realizzati basandomi sulla mia fidanzata dell’epoca: per ogni disegno di Raina c’è quasi sempre un corrispondente sketch della mia ex ragazza.
Hai mai pensato che il tuo personaggio nei fumetti sia una sorta di attore che interpreta le storie in cui lo infili?
Sì, un po’. Quando ho fatto Habibi ci sono state delle critiche da parte di accademici americani bianchi, si chiedevano che diritto avessi io di raccontare la storia di una donna araba e di un uomo di colore. Come autore non dovrebbero esserci confini di genere o di razza: a un certo punto iniziano a vivere di vita propria e io sono solo un tramite. Non penso di essere io a interpretare la storia, ma c’è sempre un collegamento coi personaggi.
L’oceano in Addio, Chunky Rice, la neve in Blankets, il deserto in Habibi, lo spazio in Polpette Spaziali... sono elementi fondamentali nelle tue storie: quanto tempo dedichi a dare vita all'ambiente e come lo sviluppi?
Esatto, la natura per me è come un personaggio, lo tratto alla pari del resto del cast. In Polpette Spaziali ho trovato che lo spazio fosse un parco giochi nel quale muovermi liberamente come artista e lo stesso è successo per le dune in Habibi, le onde in Chunky Rice o le distese bianche in Blankets.
In Polpette Spaziali ci sono molti riferimenti a elementi marini, come le balene... è come se fosse una storia marina però ambientata nello spazio.
L'universo di Polpette Spaziali non è realistico, mi immagino possa essere attraversato completamente in due giorni; è come un paesaggio costiero, i piccoli villaggi del nord-est americano come nell’Oregon, dove ci sono gommoni, piccole imbarcazioni, pescherecci.
La critica mi dice che non si trova un nesso nelle mie opere, ma in Habibi c'è un’immagine in cui un personaggio cerca di costruire la propria casa ricavando una barca dai rifiuti; in Polpette spaziali vediamo invece una galassia invasa dai rifiuti, nella quale i personaggi cercano di ritrovare la propria casa.
Il cibo, le balene, lo spreco elementare... ci sono continui riferimenti alla società contemporanea e alle funzioni corporali. È una critica?
Certo, è una critica al consumismo, è ispirata al Moby Dick di Melville, una parabola perfetta dello sfruttamento delle risorse, come il film The Revenant. Ho pensato qualcosa di simile in Habibi, anche lì stavo già affrontando il tema della colpa, come se fosse tutta responsabilità degli Stati Uniti; la loro povertà è legata alla nostra ricchezza e questo discorso consumistico prosegue in Polpette Spaziali. C'è uno stretto nesso tra l'aspetto escatologico e quello consumistico.
Questo discorso lo risolvi nell'epilogo, quando parli delle professioni, ci sono attività più pratiche e altre più intellettuali, riservate ai ceti alti. Alla fine però metti ogni cosa assieme e se tutti fanno il loro lavoro, ognuno ha il suo posto nella società e tutto va per il meglio. Dove posizioni in questa suddivisione il mestiere del fumettista?
Di sicuro nella classe privilegiata. Quando ero bambino ero nella working class, ero circondato da contadini, camionisti, mio padre era un idraulico, non avevo mai conosciuto un adulto che avesse fatto l’università; ora invece tutte le persone che conosco sono universitari, artisti, intellettuali, accademici. Non siamo ricchi come il famoso 1% ma abbiamo la possibilità di fermarci e indugiare sui nostri pensieri e sulla nostra creatività intellettuale, cosa che non possono fare nei paesi in via di sviluppo. Quindi in tutti i miei volumi c’è un senso di colpa, il combustibile della narrazione è la colpevolezza degli Stati Uniti; in Polpette Spaziali però, nel messaggio finale, mi concedo di fare quello che faccio, mi do il permesso di avere un ruolo positivo.
Qual è stata la reazione della tua famiglia alle tue opere?
Quando uscì Blankets, i miei genitori pensarono che sarei finito all’inferno, sono convinti che Blankets sia uno strumento del demonio. Cosa che non mi preoccupa molto visto che non credo esista l’inferno, così come non credo nemmeno nel paradiso, e quando gliel'ho detto loro hanno cominciato a piangere. Mia madre mi ha detto: “Se non credi al paradiso, allora che speranza c’è?”
Ho capito quanto è importante per loro questo sistema di credenze, quella speranza di una vita ulteriore per persone come lei, che si sono già rassegnate per questa, e non volevo distruggergliela. Anche fare libri è un po’ creare una speranza in questo mondo: con tutte le brutture e la violenza, c’è bisogno di trovare della bellezza e il compito degli artisti è creare e raccontare questa bellezza.
Forse è un po’ presuntuoso per me come fumettista, ma in Habibi c’è questa giustapposizione di sacro e profano, in ogni capitolo ho inserito i profeti dell’Islam. In una doppia tavola abbiamo Gesù che cammina sulle acque, mentre dall’altra parte vediamo un sedere flaccido e peloso.
Nei tuoi libri dai ai bambini i ruoli più importanti, le missioni più alte. Si è detto "I bambini sanno quello che fanno, devono disobbedire alle regole dei grandi per fuggire dal mondo e ricrearlo come loro vogliono”. Anche in Habibi sono i bambini a occuparsi l’uno dell'altro e trasmettere un messaggio di salvezza in mezzo a un mondo di adulti corrotti e pervertiti, disgustosi. Pensi che i bambini avranno un ruolo fondamentale anche nella tua prossima opera?
Non sono del tutto sicuro di quale sarà il mio prossimo volume, sto viaggiando per la promozione quindi le idee si mescolano nella mia testa, non so quale personaggio si svilupperà prima, succederà quando mi troverò da solo, di fronte a dei fogli bianchi. Uno dei volumi a cui sto lavorando ha addirittura come star una pianta, perché vorrei discostarmi dalla specie umana, mi sono stancato di raccontare di loro [ride].
I bambini sono sempre al centro perché, come dice la psicologia moderna, il nostro bambino interiore ci governa, si porta dietro i danni ed è anche un pozzo che funge da ispirazione, quindi l’autore deve continuamente abbeverarsi da esso.
Parlando d'infanzia, trovi che sia molto diverso scrivere per un pubblico di ragazzi, rispetto che per un pubblico di adulti? Quali strategie utilizzi? Pensi che ci siano due approcci alla scrittura differenti?
No, non penso che siano così differenti. Habibi è deliberatamente duro, difficile da comprendere per i bambini, così per il volume successivo ho deciso di giocare con una struttura in tre atti, più popolare nei film, più lineare, come un film hollywoodiano, mi sono imposto questo limite. Certo, ho lasciato fuori il sesso e violenza, ma per il resto non credo di aver dovuto adattare il mio stile. Penso di scrivere un po’ al di sopra delle menti dei bambini, so che man mano che accumuleranno esperienza comprenderanno più a fondo alcuni aspetti della storia. È un po’ come quando i miei genitori mi compravano vestiti di quattro taglie più grandi, sapevano che ci sarei cresciuto dentro e mi sarebbero bastati per quattro anni.
Com’è stato il tuo rapporto col colorista Dave Stewart, come vi siete relazionati?
È stato grandioso, collaboravo con lui già ai tempi della Dark Horse; io preparavo dei file digitali e a corredo gli descrivevo in modo approfondito quello che volevo in ogni singola vignetta. Lui però non mi dava un feedback istantaneo, a volte mi consegnava anche un centinaio di pagine alla volta, ed era un problema, perché magari era andato avanti per 50 pagine con uno stile di colore che andava adattato. Quindi ci sono state numerose revisioni, è stato un continuo scambio.
Che consigli daresti per chi vuole presentarsi a un editore?
Negli anni ’90 realizzavo molti mini-comics, fumetti autoprodotti, fanzine che erano abbastanza popolari nell’era del grunge, realizzate con le fotocopiatrici. Forse ora non esistono più, per via del web. Ne ho realizzati almeno una decina, alcuni di una sola tavola, poi anche più lunghi.
Imponetevi di finire qualcosa, io ero abituato a iniziare qualcosa poi magari mi stancavo o annoiavo e lasciavo perdere. C’era questo fumetto di nome Chunky Rice, una storia di circa 20 pagine, non riuscivo a concluderlo ma incontrai una persona che voleva investire su di esso e se l’avessi trasformato in un volume da pubblicare l’avrebbe fatto. Così è diventato un fumetto da 120 pagine, non era il mio progetto del cuore, ma spinto dall’esterno ho finito il mio primo titolo; quando c’è la possibilità di finire un volume e lanciarlo là fuori nel mondo... be', è il modo in cui è iniziata la mia carriera.
Voi avete il vantaggio del web, approfittatene: probabilmente tutti i più popolari fumettisti di oggi hanno iniziato a pubblicare sul web, gli editori hanno investito su di loro. Molti pensavano che nessuno avrebbe comprato qualcosa che esiste gratuitamente online, ma i fatti hanno dimostrato il contrario: chi si appassiona a un'opera poi vuole possedere l’oggetto cartaceo, quindi Internet serve anche per farsi pubblicità.
Come ti rapporti con le storie che non hai mai portato avanti, che non sei mai riuscito a concludere? Pensi che emergeranno, torneranno, si trasformeranno in qualcos'altro?
A volte succede. Polpette Spaziali era stato rifiutato 18 anni fa da un editore, me n’ero dimenticato, poi ripensandoci ho trovato qualcosa di valido che valeva la pena riprendere.
Sta succedendo anche ora, ci sono diversi progetti a cui avevo iniziato a lavorare 4 anni fa, però poi sono diventato monogamo nei confronti di Polpette Spaziali. Finire un libro è un po’ come concludere una relazione, dopo un grande amore, però, ci si dovrebbe divertire in giro, non tornare in una storia d'amore a lungo termine. Ora che sono creativamente single, il mio cuore si sta ricordando alcune scintille dal passato e vorrei rinvigorire questa fiamma.