Allen v Farrow, episodio 4 - L'esposizione del dolore

Nell'ultima puntata delle miniserie documentario Allen v Farrow la tecnica utilizzata per conquistare la benevolenza del pubblico è l'esposizione del dolore

Critico e giornalista cinematografico


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Gli articoli con cui raccontiamo uno per uno gli episodi del documentario Allen v Farrow non sono né vogliono essere una ricostruzione dei fatti, cioè di cosa sia accaduto realmente, né vogliono avere la pretesa di perorare una delle due cause, anzi vogliono essere l’esatto opposto: il resoconto delle tecniche attraverso le quali il documentario utilizza la lingua e gli espedienti del cinema per propugnare una tesi sola.
Alla storia legale della causa tra Woody Allen e Mia Farrow abbiamo dedicato un articolo separato.

Una buona parte di quello che Allen v Farrow fa è mostrare un dolore. Quello di Dylan principalmente. Le sue accuse di molestie ai danni del padre adottivo sono quello che si porta dietro in ogni intervista e nella vita. Quasi tutto il quarto episodio della serie, ormai giunti alla fine del racconto della battaglia legale, è dedicato ad illustrare quel dolore. E qui più che altrove il divario tra ciò che è mostrato e ciò che non è mostrato si fa forte. Al documentario manca la testimonianza di Woody Allen (più volte spiegano di aver provato a raggiungerlo senza successo) e quindi il suo di dolore non c’è se non per un breve segmento iniziale di repertorio, espresso con la distanza propria di Allen ad un pubblico di giornalisti in una conferenza stampa.

Invece quello di Dylan è intimo, ripreso da vicino, nella sua casa, con sua figlia, con il marito e con tutto il racconto delle conseguenze personali di quella battaglia. È un dolore raccontato ma anche mostrato materialmente quando lei stessa si blocca mentre parla delle molestie, trema, non riesce ad andare avanti e cerca un abbraccio. Il documentario non si ferma ovviamente ma ci mostra tutto, perché l’esposizione del dolore è parte delle strategie di consenso. Chi dimostra di soffrire attira verso di sé la ragione per un movimento irrazionale ed empatico molto naturale di immedesimazione.

Il racconto del dolore si accompagna alla sua elaborazione negli anni e conduce il documentario verso il racconto di cosa sia successo negli anni ‘10, ovvero il desiderio di Dylan di ricominciare a parlare di quegli eventi, gli articoli negati dal New York Times e poi pubblicati, l’esplosione del #metoo anche ad opera di suo fratello Ronan Farrow e la voglia di far parte del movimento con il proprio caso. Tutto mentre Woody Allen, racconta il documentario, ha prosperato. Che non è proprio vero, nel senso che il suo potere (se mai ne ha avuto uno) è sempre più scollato dal suo successo (comunque in fisiologico calo, specie in America) e soprattutto non ha nulla a che vedere con il rispetto di cui gode.

dylan farrow

Il ritorno delle accuse è anche il ritorno delle difese e per un’ultima volta Allen v Farrow mette contro ciò che si è detto negli ultimi anni (“Allen ha passato già un giudizio legale e ne è uscito vincitore”) con la realtà. Le affermazioni di Moses e Soon-Yi, gli unici figli di Mia Farrow dalla parte di Woody Allen vengono controbattute come sempre senza contraddittorio e c’è un ultimo tuffo nei dettagli delle vite private. Quando finisce Allen v Farrow ha sviscerato con dovizia di particolari questioni irrisolte riguardo Woody Allen (anche le sceneggiature dei film non fatti!) ma non quelle di Mia Farrow. Non ha ad esempio mai affrontato il fatto che Ronan Farrow avesse un altro nome prima o le voci che lo vogliono figlio di Frank Sinatra (anche se Mia l’ha avuto mentre stava con Woody Allen). Sono dettagli che non hanno a che vedere strettamente con la vicenda raccontata ma il documentario non ha esitato a tirarne fuori di ugualmente marginali per Woody Allen, dimostrando un doppio standard di valutazione.

L’esposizione del dolore di tutta la famiglia culmina con quello di Mia Farrow, che chiude il documentario raccontando di avere ancora paura di Woody Allen, di sentirsi colpevole e in buona sostanza di soffrire tantissimo. Di nuovo non è solo qualcosa che ci viene detto o che lei dice ma qualcosa che il documentario cerca di mostrare, trovando le voci stentate, la fatica ad esporre e tutti quei dettagli riconoscibili di sofferenza. Dopo 3 puntate di dettagli e argomentazioni l’ultima è quella che mira alla sensibilità. Oltre a mettere in campo i testimonial.

Non è infatti chiaro come mai il documentario metta in fila le star che hanno voluto difendere Allen e quelle che ne hanno preso le distanze, dicendosi dispiaciute di aver lavorato con lui in passato. Come non è chiaro come mai ci tenga così tanto a spiegare come andrebbero presi i film di Woody Allen. In una specie di apologia della cancel culture Allen v Farrow fa dire a diverse persone, specialmente critici e giornalisti, che per quanto molti artisti nella storia abbiano compiuto atti vergognosi ma noi continuiamo a fruire delle loro opere e per quanto sia sbagliato aspettarsi perfezione dagli esseri umani, lo stesso guardare i film di Woody Allen fino a che lui è in vita vuol dire finanziarlo, contribuire ai suoi guadagni. Per questo diversi intervistati sostengono di non volerne più sapere, per non sostenerlo economicamente. Che è un altro modo per spiegare le basi, le radici e la fondamenta della cancel culture.

Di certo nella quarta puntata si sente più che mai la voragine lasciata dall’assenza del punto di vista di Allen. Del quale vengono scelte le interviste meno adatte e inserite nei punti in cui lo fanno sembrare insensibile (Dylan espone il suo dolore e poi Allen in televisione che parla di quel che è successo scherzando). Nel momento in cui si punta ad esporre il dolore e si dovrebbe esporre entrambi, il problema è che si finisce in breve in una gara di dolori. Che non è proprio quel che un documentario dovrebbe fare.

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