Alessandro Usai sui successi Netflix di Colorado come Il mio nome è Vendetta e Fabbricante di lacrime: "Aiutano tutta la filiera"

Alessandro Usai, CEO di Colorado Film Production, a ruota libera sui successi, la carriera e la situazione dell'industria cinematografica

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Continuiamo il ciclo di interviste industry, iniziato con Roberto Proia e proseguito con Maria Carolina Terzi, Mattia Guerra e Carlo Cresto-Dina, chiacchierando con Alessandro Usai, CEO di Colorado Film Production da ben 14 anni.

Prima Usai è stato Direttore Generale di Cinecittà Holding e Mikado Film (dal 2006 al 2009). Ha legato recentemente il suo nome a importanti exploit cinematografici (La ragazza nella nebbia, la saga Me contro Te) e forse ancor più fruttuosi prodotti audiovisivi su piattaforma come i successi internazionali Il mio nome è vendetta (2022) per la regia di Cosimo Gomez e Fabbricante di lacrime (2024) diretto da Alessandro Genovesi.

Colorado Film, fondata da Maurizio Totti, Gabriele Salvatores e Diego Abatantuono nel 1986, si è distinta in questi ultimi anni per aver prodotto molti remake che hanno sempre avuto un forte impatto dentro il box office italiano. La scelta di testi originali non particolarmente noti a livello internazionale, ha permesso a Colorado di lasciare parecchia libertà creativa ai nostri filmmakers tra cui negli anni si sono distinti veri e propri directors di scuderia come Alessandro Genovesi, l'ex critico cinematografico Guido Chiesa e più recentemente Giovanni Bognetti, autore dei successi su Netflix Natale a tutti i costi (2022) e Ricchi a tutti i costi (2024). Usai è stato al centro di questo processo, accanto a Maurizio Totti e più recentemente a Iginio Straffi. Colorado è una delle case di produzione più eclettiche del panorama italiano, tra i pochissimi a fare horror, thriller, action e commedie family come quando hanno portato sorprendentemente al successo in sala la saga Me contro Te (sei lungometraggi per il cinema dal 2020 a oggi con un box office complessivo di più di 30 milioni di euro). L'ultimo capitolo Me contro te il film – Operazione spie è stato per diversi giorni in testa alla classifica italiana. Mentre Ricchi a tutti costi è posizionato in cima alla top ten Netflix dei film più visti in Italia.

Molto del merito va alla squadra Colorado capitanata da Iginio Straffi e Alessandro Usai. Ma pochi sanno di un passato da accademico da parte di una metà della coppia.

Innanzitutto come nasce la passione per questa cosa qui che ancora chiamiamo “cinema”? Anno, film, personaggio, tematica?

È cominciato tutto come una passione avulsa dalla mia formazione e iniziale occupazione. Di lavoro facevo il professore universitario e ricercatore. L'ho fatto per tutta una prima parte della mia carriera. Insegnavo Economia aziendale dopo essermi laureato in Bocconi e aver poi fatto un dottorato di ricerca tra Bologna e Stati Uniti. A un certo punto, mi si è presentata l'opportunità di studiare dal versante economico sia diversi media che il concetto di cultura in generale. Accadde naturalmente e il contesto storico aiutò. In Bocconi infatti cominciava proprio in quel 1996 un interessante corso di laurea per queste discipline. In quel momento ho iniziato a esplorare il cinema da un punto di vista economico insieme al Professor Severino Salvemini. Abbiamo realizzato insieme sia libri che ricerche (“Il cinema impresa possibile. La sfida del cambiamento per il cinema italiano”, Milano, 2002 per i tipi di Egea; N.d.R). Insomma ero diventato un esperto dello studio del settore da un punto di vista finanziario e a causa di ciò venni contattato dall'allora Ministro dei beni e delle attività culturali Giuliano Urbani. Mi spiegò che aveva bisogno di un consulente esterno perché si stava accingendo a rivedere la Legge Cinema ovvero quello che sarebbe poi stato definito il Decreto Urbani del 2004. In quel momento cominciai a fare da spola tra Milano e Roma per entrare sempre di più nel merito dei finanziamenti pubblici nei confronti della filiera audiovisiva italiana. Tutto questo durò un paio di anni. Mentre continuavo a fare il Professore all'università, avevo una seconda vita da consulente del Ministero. Nel 2003 Urbani mi disse che il lavoro di consulente per la Legge Cinema era finito e mi chiese a bruciapelo se mi sarebbe interessato fare il Direttore Generale di Cinecittà. Ero giovane e l'offerta era così allettante che mi obbligò a prendere una decisione molto importante: o di qua o di là. O rimanere a fare lavoro accademico o buttarmi definitivamente in queste nuove esperienze e responsabilità. Dovevo compiere un passo importante e ci misi un po' a scegliere. Guidato dalla passione… decisi di dare le dimissioni dalla Bocconi e accettare l'incarico di Cinecittà. Da allora sono dentro questa industria. Sono passati 21 anni.

Che cos'è il prodotto audiovisivo per te?

Per me il prodotto audiovisivo è un prodotto di intrattenimento anzi la forma più sofisticata, dal mio punto di vista, del concetto di prodotto di intrattenimento. Perché contiene come arte tante altre arti. Contiene il teatro, la musica, la fotografia, anche la pittura. E quindi tutte queste arti sono messe in qualche modo al servizio di un intrattenimento. Oppure si può optare per realizzare qualcosa anche di più sofisticato per sollecitare un pubblico a pensieri più complessi e sfidanti.

Quand'è che la passione ha battuto il raziocinio nella tua carriera?

Direi sempre. Io sono per estrazione e formazione culturale, come ti ho già detto, una persona estremamente razionale. Sono stato formato così. Adoro la metodicità. Però le scelte importanti della mia vita professionale e produttiva sono state spesso guidate da una passione che superava spesso e volentieri il raziocinio e il calcolo. È inevitabile comportarsi così quando lavori nel cinema e ti occupi di “fare film”. Ci sono sempre dei progetti di cui ti innamori al punto che quell'amore supera sempre il calcolo dello sforzo.

Un grande errore compiuto in carriera?

In una fase quando dopo Cinecittà sono passato a Mikado Film, che era una distribuzione storica indipendente, mi sono misurato con la produzione italiana. Ecco devo dire che non avendo avuto in quel contesto storico ancora un'esperienza forte come produttore mi sono trovato coinvolto in alcune produzioni che oggi non farei mai anche se però devo ammettere che da quelle esperienze negative ho imparato molto.

Un grande colpo assestato?

Direi La ragazza nella nebbia (2017) di Donato Carrisi. Perché è partito da una passione e sulla carta sembrava un'operazione totalmente irrazionale. Si trattava di mettere in piedi un thriller a medio alto budget in Italia in un momento, mai dimenticarlo, in cui non c'erano le piattaforme ed esisteva solo il mercato theatrical. Inoltre mi trovavo a lavorare con un affermato autore letterario come Donato Carrisi, che fra parentesi era anche un mio amico, il quale fino a quel momento della sua carriera non aveva mai fatto il regista e a cui avevamo proposto l'esordio dietro la macchina da presa. Di fronte a tutte queste oggettive complessità, il risultato finale è stato entusiasmante: David di Donatello come Miglior Regista Esordiente (Carrisi ebbe l'onore di vederselo consegnato da un certo Steven Spielberg, N.d.R), un buon box office (3,7 milioni di euro) e due fuoriclasse come Toni Servillo e Jean Reno perfettamente organici dentro un progetto così eccentrico.

Cos'è la cosa più importante che hai imparato del mestiere in questi anni?

La cosa più importante che ho imparato è che ricominci sempre da zero. È quella cosa sfidante che ti tiene vivo ma è anche la cosa che non ti fa dormire la notte. Puoi avere realizzato più di qualche successo eppure il giorno dopo ti dici sempre: “E adesso?”. Non è scritto mai da nessuna parte che le cose se sono andate bene una volta continueranno ad andare bene altre volte. Il nostro lavoro è una costante araba fenice che muore e resuscita. Croce e delizia di questo lavoro.

Cos'è che ti piace di più in questo momento? Quella “cosa” che quando la vedi pensi: “È perfetta”?

La perfezione non è di questo mondo. Tutto quello che ho fatto, anche le cose di maggior successo, se le guardassi oggi penso che troverei tante cose che migliorerei. Un processo che trovo molto stimolante e che abbiamo avuto la fortuna e l'esperienza di vivere in questi anni dentro Colorado è la possibilità di lavorare con Il mio nome è vendetta (2021) e Fabbricante di lacrime (2024) a prodotti internazionali che hanno avuto un successo mondiale immediatamente nel giro di un mese. Questa diversità di tempistica per quanto riguardo la ricezione del tuo lavoro, francamente mi stupisce ed esalta. Se ci pensi un attimo è un processo particolare, possibile solo per via del fatto che Colorado attraverso quello strumento è in grado di arrivare a un pubblico immenso giocandosela alla pari con il prodotto audiovisivo di altri paesi. Perché non bisogna mai dimenticare che spesso il prodotto in italiano, essendo un industria più piccola di altre, ha problemi ad essere messo in una partita in cui te la giochi con gli altri player del mondo partendo dalla stessa casella. Ecco questo tipo di successo istantaneo internazionale è una novità nella mia esperienza professionale e quando accade mi sembra qualcosa di molto nuovo e interessante.

Visto che c'è chi come Nanni Moretti fa ironia sul rapporto tra creatività italiana e streamers come Netflix, tu invece cosa pensi della nostra identità professionale quando ci giochiamo questa partita con soggetti come Netflix? È un bene o un male per la nostra industria e cultura giocare a questo gioco?

È un discorso molto complesso e articolato. La tua domanda ha tante possibili declinazioni. Io penso che anzitutto la specificità comunque sia premiante anche a livello internazionale. Questo discorso mi pare confermato dalla cinematografia coreana dell'ultimo decennio, così come per la Francia o la Spagna. Quelle che vengono da questi paesi citati possono essere dunque produzioni che mantengono una precisa identità nazionale forte a cominciare dalla lingua, dalle location, dagli interpreti e dai soggetti. È ovvio che per avere dei risultati a seconda del contesto in cui le storie vengono messe, devi cercare di andare incontro a quel pubblico gigantesco che sta lì nel mondo. Un prodotto per Netflix è legittimo che debba avere qualcosa di coerente con il pubblico che Netflix vuole andare a prendere. Netflix ha un dettaglio ampio dei suoi clienti, delle loro abitudini, età demografiche così come un bravo esercente di una bella sala d'essai deve conoscere nel dettaglio il suo pubblico. Su una piattaforma tu puoi fare un action o una commedia e questa “cosa” può mantenere l'identità nazionale pur declinandosi coerentemente con un mercato specifico. Ma ognuno lo fa. Mi spiego meglio: se tu vuoi andare in Concorso a Cannes, farai un film con delle strategie editoriali legate al gusto dei selezionatori di Cannes pur cercando di mantenere una tua specificità italiana di linguaggio e temi.

Da queste esperienze con Netflix quindi il bicchiere è mezzo pieno?

Il bicchiere è mezzo pieno perché questi successi non servono solo a Colorado Film o Rainbow o ai registi Cosimo Gomez o Alessandro Genovesi (gli ultimi due sono coloro che hanno diretto Il mio nome è vendetta e Il fabbricante di lacrime, N.d.R). Queste esperienze servono a tutta l'industria, senza mai dimenticare che per Colorado la sala rimane essenziale e strategica all'interno della filosofia aziendale. Presupposto ciò, dobbiamo però sapere che player internazionali del livello di Netflix decidono quanto investire nei diversi paesi del mondo in base alle esperienze avute in passato. È ovvio che quanto più noi, dove per “noi” intendo l'industria audiovisiva italiana, riusciamo a fornire prodotti locali che sono successi sia in Italia che fuori… poi alla fine ci guadagniamo tutti. Può essere chiaro per Netflix o altri player che in Italia c'è un potenziale creativo interessante e quindi questi soggetti possono essere stimolati a investire sempre di più dalle nostre parti. Questa dinamica accadeva lo stesso in passato ma solo Italia su Italia. Adesso questa nuova realtà diventa una sana competizione tra paesi e ora siamo in “gara” con spagnoli, francesi e coreani per un paniere mondiale. A me questa cosa esalta, da italiano. A volte non so quanto questa consapevolezza sia diffusa nel nostro ambiente. Su questo ultimo punto mi permetto di citare Iginio Straffi. Lui questa consapevolezza ce l'aveva già 20 anni fa. Iginio fece un prodotto come le Winx che non aveva l'Italia come obiettivo ma il mondo. È un “piccolo” dettaglio che cambia completamente scenario e partita. Devi essere un po' un sognatore per fare quella “cosa” là che ha fatto Iginio. Si tratta di imprenditori totalmente visionari. E poi dopo però capisci perché Iginio è riuscito a comprare Colorado Film e altre realtà.

Qual è il regista che ti ha colpito di più con cui hai collaborato e la star che ti ha sorpreso di più da vicino?

L'esperienza accanto a un regista che più mi ricordo è ai tempi di Mikado Film con Luca Guadagnino quando realizzammo insieme Io sono l'amore (2010). All'epoca lui veniva da Melissa P. (2005), prodotto considerato esclusivamente commerciale. Eppure si vedeva subito che Luca aveva le idee molto chiare e poi la Storia gli ha dato ragione. Ecco un altro grande visionario. Luca all'epoca era vittima di una sorta di snobismo e anche di una certa accusa dentro il cinema italiano di essere un po' presuntuoso. O meglio veniva accusato di essere uno che pensava di sé qualcosa che ancora non era stato dimostrato dai fatti. Invece Io sono l'amore esplose in tutti i festival del mondo (a Venezia non fu inserito in Concorso, N.d.R.) guadagnando la candidatura al Golden Globe come Miglior Film Straniero.

Per quanto riguarda la star rispondo senza alcun dubbio Dustin Hoffman con cui abbiamo lavorato a L'uomo del labirinto (2019) sempre di Donato Carrisi. Sono quelle situazioni in cui puoi aver prodotto già 20 o 30 film ed avere 50 anni eppure come ti avvicini a Dustin Hoffman e gli stringi la mano… ritorni un ragazzino. È tale il senso di ammirazione per lui e l'immaginario collettivo che riesce a rappresentare che ti rivedi passare davanti agli occhi tutti i suoi capolavori da Rain Man (1988) a Il maratoneta (1976) e ti senti un 13enne di fronte ai Duran Duran (da questa battuta sul gruppo inglese degli '80 si arguisce chiaramente quanto Usai sia uno della Generazione X, N.d.R.). Hoffman è una persona molto, molto semplice. Si dice di tante superstar hollywoodiane. Tu pensa che alla mensa di Cinecittà si metteva in fila in pausa pranzo con il resto della troupe. Si metteva lì con il vassoio di plastica per prendere il riso e la cotoletta. Era un chiaro segnale politico che voleva inviare a tutti noi. Sapeva che facendo ciò, avrebbe motivato tutto il resto della troupe. Della serie: “Io sono Dustin Hoffman ma qui siamo tutti uguali e questo lavoro si fa insieme”. Questa cosa andrebbe imitati da molti. Non so se gliela insegnano in America ma da quello che sento in giro è proprio un atteggiamento che da quelle parti è tipico di queste superstar. Sempre dentro la mia esperienza Colorado Film, accanto a un grande compagno di strada e squisito complice come Maurizio Totti, non posso non citare il rapporto strettissimo con Fabio De Luigi e la passione che ci abbiamo messo in relazione ai grandi successi legati al genere della commedia che hanno visto in Fabio la nostra star fin dal 2010. La commedia è stata la mia vita fin dai miei primi anni di Colorado e Fabio ha rappresentato in un certo senso l'alfiere di quel concetto di risata che in quegli anni volevamo con Maurizio Totti realizzare in Italia. Sono molto legato a tutto il filone con lui come punta di diamante, da La peggior settimana della mia vita (2011) ai suoi due ultimi film da regista Tre di troppo (2023) e 50 KM all'ora (2024).

Si produce troppo secondo te in Italia?

Forse in alcuni momenti sì. Si è prodotto un po' troppo. Secondo me l'interrogazione più importante non è sulla quantità ma sulla tipologia. È lì che bisogna fare un ragionamento. Negli anni '60 eravamo i secondi dopo gli Usa in fatto di produzione però il 90% era intrattenimento e il 10% super autoriale con geni assoluti come Fellini, Antonioni, Visconti e De Sica che hanno cambiato la Storia del Cinema. La mia sensazione è che negli ultimi anni queste proporzioni si siano modificate con il rischio che non ci sia un mercato che le possa sorreggere. Sarebbe bello poter tornare a dire che in Italia abbiamo prodotto in un anno 25 horror (Colorado ha realizzato il miglior horror italiano degli ultimi anni dopo Il bosco fuori di Albanesi ovvero A Classic Horror Story di De Feo e Strippoli, N.d.R.), 15 film d'azione, 7 thriller, 3 musical e poi il cinema pensato per i festival con storie del reale.

Arriverà mai un giorno in cui lo diremo?

Secondo me sì. È possibile perché nelle giovani generazioni già da tempo vedo questa voglia. Hanno un gusto molto mondiale e globale. Sono cresciuti con il cinema più variegato. Giustamente considerano Joker (2019) di Todd Phillips come uno dei più grandi film d'autore degli ultimi 20 anni. Vengono fatti dei tentativi e ci abbiamo provato anche noi. Ma ce ne vorrebbero molti di più in questa direzione. Ci si arriverà per forza perché a un certo punto sarà il mercato che lo richiederà. Anche l'Italia, che ha il più grosso patrimonio artistico del mondo, aveva un rapporto tra committenza e artista già ai tempi di Leonardo e Michelangelo. Il legame tra ragioni di mercato e pulsioni artistiche non è una bestemmia anche per noi italiani ed è un elemento storicamente sempre presente nella nostra Storia e cultura. Ovviamente deve essere un legame dialettico e produttivo come ai tempi di Leonardo e Michelangelo o anche del più problematico Caravaggio.

Ma tu la saga da Lo chiamavano Jeeg Robot (2015) l'avresti fatta?

Se l'avrei fatta? Mettiamola così: io avrei fatto qualsiasi cosa in mio potere per poterla fare. Avrebbero dovuto impedirmelo con la forza e avrei dovuto trovare dei muri belli tosti di fronte per fermarmi. Quando tu hai l'opportunità rarissima di creare una intellectual property di quella fattura e bellezza… poi dovrebbe essere automatico poterci costruire sopra una narrazione. L'industria americana ci campa su questo concetto da sempre. Jeeg Robot si era affermato dentro l'immaginario italiano ancora più dei singoli dati del botteghino ed era diventato un cult che andava oltre il risultato del box office. Quel film viene citato ancora oggi e tutti sanno immediatamente cos'è. Magari sarebbe ancora possibile rimettere in piedi quell'Universo ancora oggi. È una riflessione che inviterei caldamente a fare.

Pensi che l'Italia debba avere una connotazione geopolitica precisa in chiave autoriale e di cinema del reale ancorati alla tradizione neorealista amata e premiata da Hollywood per tuto il '900 o sogni che si torni alla decade dei '60 in cui eravamo fortissimi anche nel cinema di genere tra fantascienza, western, polizieschi, gialli, erotici e horror?

Chi mi conosce non ha un secondo di dubbio. Io mi colloco nella seconda sponda. Aggiungo un elemento non secondario. Essendo il nostro un mestiere complicato anche da un punto di vista tecnico non bisogna sottovalutare che una parte di quella autorialità dei '60 ha beneficiato il fatto di essersi fatta le ossa su quegli altri set dell'intrattenimento. Se tu guardi il cinema di genere italiano dei '60-'70 trovi dei livelli di professionalità e perfezionismo tecnico che oggi si farebbe fatica a replicare. Chi aveva l'opportunità di stare in quel cinema lì, imparava tuto e poi andava a lavorare con i super autori portando quella competenza e squisito gusto artistico. Andavano nella commedia e imparavano da Risi e Monicelli oppure andavano nell'horror e imparavano da Bava. Poi tutti quegli apprendimenti li portavano dentro il cinema d'autore e venivano fuori quei capolavori.

Usai cosa ci farai vedere domani?

Vorrei farvi vedere, perché manca e vorrei farla io, una serie thriller. Attenzione: una serie thriller pura nel senso non crime e non investigation. Vorrei farvi vedere un thriller al 100% italiano, un po' come La ragazza nella nebbia. Ma non al cinema. Vorrei farlo dentro la serialità.

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