1997: Fuga da New York, cos'era il cinema 40 anni fa
In un periodo in cui molto cinema americano raccontava New York come un luogo da distopia un film più di tutti influenzava il futuro
C’è stato un momento storico in cui il cinema era il posto in cui capire la società. Era vero per il cinema d’autore, ma ancora di più per il cinema commerciale. Alla fine degli anni ‘70, quando la sbornia della New Hollywood stava iniziando la sua china discendente, tutta una parte di cineasti che non lavoravano nella costa Ovest ma in quella Est, raccontavano storie di scenari urbani derelitti, perché la città per antonomasia, New York, aveva visto il tasso di criminalità salire vertiginosamente lungo tutto il decennio.
L’immagine che ne usciva era quella delle metropoli moderne come piattaforma per la distopia, il luogo perfetto per morire ed essere calpestati il giorno dopo. In questo scenario nel 1981 è ambientato il più incredibile di questi titoli, il più preciso e diretto: 1997: Fuga da New York, in cui John Carpenter ipotizza un futuro 16 anni in avanti, nel quale il tasso di crimine nella sola Manhattan è salito del 400%. La situazione è irrecuperabile e quindi il governo chiude l’isola trasformandola in un penitenziario. Il regno dei criminali, in cui viene spedito chi non ha più speranza. Quando l’aereo presidenziale la sorvola un missile lo distrugge e il presidente, salvatosi con una capsula d’emergenza, viene fatto prigioniero.
Uscito nel 1981 ma concepito nel 1974, due anni dopo il Watergate, in un clima di sfiducia, paranoia e discredito dell’autorità, Fuga da New York è nelle sale quando Reagan è presidente, ma è chiaro che è di Nixon che parla, di quell’America in cui non c’è più nessuna fiducia per le decisioni di chi è in alto e non c’è proprio più nessun attaccamento al presidente. Tutto trasportato in quella New York da incubo. Anche se poi il film non è stato girato a Manhattan se non per qualche scena con i luoghi più iconici. È più che altro St. Louis (con dei matte painting per fingere il paesaggio di Manhattan dipinti da James Cameron), ragione per la quale è tutto così buio. Una soluzione necessaria per costrizioni di budget (a New York girare costa, A St. Louis c’era stato un grosso incendio e la città era lieta di accogliere di nuovo il cinema) diventa la cifra del film. Girato tutto di notte tranne l’ultima scena (all’alba) tutto 1997: Fuga da New York è un delirio di neri in cui brilla Kurt Russell, eroe fuori dal suo tempo. Gli anni ‘80 saranno quelli della cristallizzazione dell’eroismo americano individualista, Jena Plissken invece è l’opposto: non crede in quello che fa e sabota la sua stessa missione.
Quel clima culturale disperato americano ha creato il cinema di protesta del domani, quello più chiaro nelle volontà e capace di parlare a tutti. Il suo più legittimo erede è La notte del giudizio. Infatti se negli anni ‘80 l’azione era il genere che parlava a tutti, in questi anni è l’horror. La notte del giudizio, una delle più efficaci produzioni di Jason Blum, è il nostro Fuga da New York, la storia di un’America futura (ma non troppo) in cui il governo prende una decisione similmente paradossale per rimediare ad una situazione che non sa gestire, ovvero dedicare un momento dell’anno allo sfogo degli istinti della popolazione, sospendendo tutte le leggi per una notte nella quale non ci sono regole. Ugualmente fondato sul buio della notte, sulla città come scenario e sulla fuga e la protezione di qualcuno dalle angherie di bande, La notte del giudizio rimescola tutti quegli indizi e quelle trovate per un’altra era in cui non sono più i criminali il problema ma gli altri, quelli che di giorno hanno una maschera e poi (abbiamo scoperto in questi anni di social media) nascondono opinioni, desideri e pulsioni aberranti. Non a caso la serie, partita nel 2012, ha vissuto i suoi capitoli migliori quando la politica americana ha preso una sterzata nella direzione della distopia, cioè con la presidenza Trump.