Una Volta nella Vita, la recensione
Con tutto il buonismo possibile Una volta nella vita vuole raccontare qualcosa di duro (l'Olocausto) attraverso una falsa visione idilliaca della scuola
I compiti di questo genere di film sono di “non dimenticare” andando a ribadire ciò che gli altri film hanno già spiegato, in questo caso lo si fa attraverso il racconto di alcuni ragazzi che apprendono essi stessi i veri orrori nazisti per una ricerca finalizzata ad un concorso nazionale, una che li unirà da che erano un gruppo allo sbando. Ma come al solito è tutto troppo dolce, tutto troppo favolistico, edulcorato e manicheo per poter essere anche duro e realista come si vorrebbe.
Una volta nella vita è un film per maestre o insegnanti, per chi sogna davvero un mondo così irreale e ha il coraggio di mettere nel volto di una buona e idealista professoressa di liceo il potere di cambiare un’intera classe a furia di parole. Non è questione nemmeno di rispolverare l’idealismo di L’attimo fuggente (che aveva ben altre basi narrative ma ha fatto danni incalcolabili), quanto di voler convincere tutti della più assurda delle tesi, cioè che i ragazzi più scapestrati si lasceranno conquistare dal piacere della conoscenza storica, senza poi affrontare mai le contraddizioni messe in campo.
Studenti complessati, studentesse difficili, amici che non sono tali, scelte religiose impopolari sono tutti semi gettati e mai affrontati, o (ancora peggio!) risolti senza una profonda motivazione, solo mostrando una subitanea quanto immotivata conversione che produce effetti duraturi. E i ragazzi dovrebbero essere i primi ad indignarsi e arrabbiarsi per un simile ritratto semplicistico, non fosse che un film simile non gli interessa minimamente, perchè finge di parlare a loro mentre rassicura gli adulti.
La dicitura “tratta da una storia vera” è la cosa più esilarante di tutte.