Venezia 74 - Sweet Country, la recensione
Il nuovo film di Warwick Thornton, Sweet Country, si accontenta di omaggiare il western senza compiere il salto di qualità per risultare indimenticabile
Ambientato nell'entroterra australiano nel 1929, il film s'ispira alla vera storia di Wilaberta Jack (che qui prende il nome di Sam Kelly), aborigeno processato per l'omicidio di un uomo bianco. L'opera di Thornton, da sempre impegnato a dar voce al popolo autoctono del continente oceanico, non si affranca quasi mai dagli stilemi più noti del cinema western, adagiandosi sulla base esteticamente solida dei suggestivi paesaggi desertici.
La vicenda di Sam Kelly che scappa assieme alla moglie Lizzie da una giustizia che sa non essere uguale per tutti è esemplificativa dell'espropriazione territoriale attuata dai bianchi, divenuti dominatori incontrastati di un paese e di un popolo preesistenti alla loro invasione. A esso si accosta la storyline di Philomac, giovane meticcio che incarna la duplice natura dell'Australia: probabile figlio di una violenza, guardato con circospezione dai bianchi ed esortato a non fidarsi dei neri, il ragazzino cammina incerto alla ricerca di un'identità che è specchio del futuro della sua terra, bizzarra miscela di tradizioni aborigene e suggestioni del vecchio continente.
Pur portando a casa un risultato formalmente riuscito, grazie anche a un cast di volti azzeccatissimi tra cui spicca un irriconoscibile Sam Neill, il regista australiano paga il prezzo di una messinscena troppo canonica per non risultare schiacciata da numerosi precedenti ben più incisivi, seppur nobilitata da un'inedita trasposizione geografica.