[TSFF 2016] Kill Command, la recensione
Opera prima che non riesce a non essere un B movie, trionfando con gli strumenti dell'artigianato del cinema, Kill Command è liberatorio
Dovrebbe essere Terminator incontra Predator l’opera prima di Steve Gomez, cioè l’azione ammantata di paura, invece porta in dote un’autonomia tutta sua nella maniera in cui si diverte ad immaginare la guerriglia del futuro in un ambiente primitivo. Nonostante abbia in testa temi alti come la responsabilità individuale e il rapporto conflittuale con le macchine (a cui insegniamo ogni cosa ma di cui poi temiamo l’autonomia), Kill Command non riesce a non essere un film d’azione e di corpi pesanti, di metallo duro contro materia morbida. In lui le qualità da B movie sono così evidenti e smaccate da rivelarsi insopprimibili, una tensione verso l’emersione che tiene vivo il ritmo del film in ogni momento.
La strategia del film d’azione di Gomez è di far muovere pochissimo i propri personaggi, di giocare a dama più che farli correre, dimostrando di conoscere bene quale sia il reale interesse dello spettatore nel momento in cui guarda un film d’azione, non solo l’armonia del montaggio ma soprattutto la vittoria di una parte sull’altra con un misto di ardimento e intelletto.
Quando si dice che questo è cinema “artigiano” è questo che si intende, la sapienza nel fabbricare un film data dal saper dosare ingredienti noti e risaputi con una maestria tale da creare un mix perfetto. Di fronte a questo la prevedibilità conta zero, l’esecuzione è tutto.