[TSFF 2016] Approaching The Unknown, la recensione

Asciugato eccessivamente, Approaching The Unknown non si interroga solo sul rapporto tra uomo e ignoto ma cerca una nuova forma trovando solo noia

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

La fantascienza più moderna, quella degli ultimi 4-5 anni, è la più complessa che abbiamo visto nel lungo viaggio del genere, dagli albori ad oggi. È quella dei film in cui non c’è una minaccia da combattere, in cui non ci sono alieni, navi nemiche o anche solo esseri umani malvagi, solo gli uomini a contatto con l’avventura dell’esplorazione. È anche forse la più ragionevole in assoluto, perché senza fronzoli va dritta al punto e racconta di uomini e spazio, dell’ansia dello scoprire e del terrore di gettarsi nell’ignoto. Approaching The Unknown, fin dal titolo, mira esattamente a questo ma con un rigore eccessivo.

È la storia di uno scienziato, talmente determinato ad andare su Marte per allontanarsi dalla Terra da aver elaborato un sistema di sua invenzione che trasforma la terra in acqua, così non da non avere problemi a vivere sul pianeta Rosso. A differenza di Sopravvissuto - The Martian (a pieno titolo uno dei film della nuova fantascienza) questi su Marte non ci arriverà mai ma dovrà lottare per sopravvivere nello spazio. È quella strana tensione verso il rischio e verso la visione di qualcosa di nuovo a spingere tutto il film, il desiderio di arrivare. Peccato che non ci sia anche un intreccio, che non ci sia l’ansia di non morire di Gravity o la determinazione di Interstellar ma solo un lento soffrire, che non ci parla di umanità ma solo di cattivo cinema.

L’opera prima di Mark Elijah Rosenberg è talmente rigorosa con i suoi presupposti da finire per dimenticare il pubblico. Nonostante in più di un momento cerchi la meraviglia pura, la visione estatica dell’universo da parte di un uomo che sembra quasi alla deriva per propria volontà, Approaching The Unknown non è mai appassionante, non basta il rischio di morte dietro l’angolo a renderlo incalzante, non basta il conto alla rovescia a consentirgli di acchiappare lo spettatore. Né tantomeno è Mark Strong il tipo di attore capace di reggere da sé l’assenza di eventi, compassato per stile, minimalista nella recitazione.

La lenta deriva dell’astronauta che ha deciso di viaggiare in sola andata verso Marte è la morte inesorabile di un film determinato ad avvitarsi su se stesso, sui suoi dilemmi e sui grandi quesiti che ripete ossessivamente fino a consumarli ed esaurire ogni senso anche dal fertile terreno del rapporto tra l'uomo e la solitudine, tra lo sconosciuto e la prossimità alla morte. Tutti temi su cui il film passa più volte con la medesima noia che attanaglia la vita di un uomo solo su una navicella spaziale.

Della suggestione e del fascino che riempie i migliori esempi di nuova fantascienza d’esplorazione non c’è nemmeno l’ombra.

Continua a leggere su BadTaste