The End of the Tour, la recensione
Lontano dalla lettera d'amore e più vicino alla curiosità di un appassionato, The End of the Tour è uno dei pochi biopic che centrano il proprio intento
Estraneo per carattere e personalità al genere del biopic (anche la provenienza, cioè un articolo e non una biografia agiografica aiuta), The End of the Tour ha nel minimalismo espressivo la sua carta vincente. Quel paradigma molto abusato per il proprio genere che vuole la scrittura subordinata all’interpretazione (la prima molto usuale e ripetitiva, la seconda sempre enfatizzata e sottolineata con il mimetismo), qui non si smentisce ma anzi viene innalzata da uno svolgimento intelligente e dalla maniera sottile e moderata con la quale hanno lavorato sia Jesse Eisenberg che Jason Segel. Il David Foster Wallace che viene tormentato, intervistato, amato e odiato nel film è una figura tanto fuori dai canoni quanto in fondo piccola e tenera; tanto aderente allo stereotipo dello scrittore matto e appartenente ad un proprio mondo, quanto un uomo di provincia dalle debolezze molto comuni. In questo senso la scena finale, per quanto annunciata, suona realmente sorprendente.
Così la qualità migliore che un film possa esibire, una narrazione scorrevole e inarrestabile, qui diventa anche quell’elemento che rompe la banalità e raggiunge l’obiettivo che quasi tutti i biopic mancano: mettere in scena non tanto l’uomo quanto il suo lavoro.