The Eichmann Show, la recensione

Storia della ripresa televisiva di uno dei più importanti processi nazisti di sempre, The Eichmann show deve restituire giustizia ma è ossessionato da altro

Critico e giornalista cinematografico


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Sembrano non finire mai le storie che possono essere raccontate intorno al nazismo. The Eichmann Show recupera un evento vero, la vera registrazione del processo ad Adolf Eichmann, inventore della “soluzione finale” ovvero lo sterminio degli ebrei, per raccontarne il dietro le quinte. Con al comando il grande documentarista statunitense Leo Hurwitz, in quegli anni allontanato da Hollywood perché accusato di comunismo, la trasmissione televisiva diventò a tutti gli effetti un documentario, un’opera in cui alla testimonianza dei fatti si affianca la retorica del linguaggio filmico. Di questo in teoria parla il film, del contrasto tra un produttore che desidera solo una cronaca e un regista che vuole cogliere qualcosa in più.

Il film ha anche il dovere di raccontare quella parte del nazismo che ora sembra essere più narrata, ovvero la sua eredità, cosa è successo dopo la fine della guerra. In un mondo in cui nonostante fossero passati diversi anni i nazisti sembrano esistere ancora, annidati ovunque, pronti a fare attentati e inclini a minacce di tutti i tipi, parlare dello sterminio degli ebrei era ancora qualcosa di impossibile, un tabù che non si poteva sfatare, una verità che nessuno voleva ammettere e che la trasmissione del processo voleva invece affermare.

Benché correttissimo, girato con dovizia e molto rigoroso il film di Paul Andrew Williams non guarda più in là del suo naso. Si sbriga molto a dare soddisfazione allo spettatore nel finale, con una scena che appare pretestuosa in cui i protagonisti, guardando le vere riprese del processo, ad un certo punto decidono che l’imputato sì è tradito e che è ormai fatta, la giustizia è arrivata (ma non fu proprio così); dall’altra parte cerca anche di avere il tempo di guardare gli eventi come fece Hannah Arendt (che poi scrisse del processo in La banalità del male), sottolineando la vacuità delle espressioni dell’imputato, la sua impassibile fermezza di fronte ad ogni accusa e ogni testimonianza, la sua sostanziale impermeabilità.

Nessuna delle due cose però riesce davvero e alla fine il ritratto più sincero è quello del regista ossessionato dall’affermare il potere delle immagini senza riuscirci, tema che però interesserà molto meno il pubblico venuto per sentir parlare del processo Eichmann.

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