Quel Fantastico Peggior Anno della mia Vita, la recensione

Apoteosi delle regole e dei limiti del cinema indie americano Quel Fantastico Peggior Anno della mia Vita suona fasullo come i film di Hollywood

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

Il cinema indipendente, in America, ha segnato negli ultimi 20 anni una delle più importanti rivoluzioni di linguaggio sul grande schermo. L’ha segnata perché è aumentato in concretezza, perché è sceso dalla montagna sperimentale in cui si era autoesiliato e perché la riduzione di costo di produzione l’ha aiutato ad entrare in concorrenza con il cinema a basso budget degli studios. Ma soprattutto l’ha segnata perché ha cominciato a guardare e raccontare un’America diversa, fatta spesso di fisici sformati, di persone che gli altri film non riprendono, di luoghi che altrove non si vedono e personaggi devianti, un universo più dimesso e concreto, meno celebrativo e idealizzato. Tutto questo, com’è logico, ha portato anche ad una serie di insopportabili difetti, di esagerazioni che hanno finito per diventare regola e a modo loro un “sistema” parallelo, film che propongono sempre gli stessi tipi di personaggi e che sono indulgenti con un modo di fare che è un canone in sè, quello che chiamiamo “cinema Sundance”.

Quel fantastico peggior anno della mia vita è esattamente questo: la degenerazione del cinema indipendente americano.

Un personaggio dotato di una particolarità che lo estranea dalla massa, una dimensione tragica della vita vissuta con umorismo e passione per il grottesco quotidiano e in più (in questo film) anche una maniera di ricalcare le caratteristiche centrali dello stile di Wes Anderson, tra secchi movimenti di macchina ortogonali e recitazione distaccata.
Tutto serve a raccontare di due ragazzi in età liceale, una malata di una malattia che potrebbe ucciderla e l’altro che viene inizialmente costretto dalla madre a fare amicizia con lei per cortesia. Lui si vanta di non mischiarsi con nulla e di sopravvivere nella giungla della high school proprio perché non prende rischi, è amico di tutti ma solo superficialmente, non ha nemici e come può si nasconde. Provate ad indovinare? Questa storia gli insegnerà che così non vive a fondo nulla e invece deve immergersi nell’agone della vita, accettando rischi, dolori e sofferenze.

Quel fantastico peggior anno della mia vita inoltre aggiunge anche uno strato di intellettualismo dichiarato, di ammirazione esposta per il cinema europeo, di citazione dei nomi che contano (da Herzog a Truffaut), di riferimenti che blandiscono il suo pubblico d’elezione confermandogli di fare parte del circoletto dei più svegli e acculturati, dell’elite contrapposta a tutto il resto. Sono tutti spunti in teoria buoni, parlare di grandi autori invece che di cretinate, mostrare la parte deviante della società invece del solito uomo comune totalmente conformato e piegato al flusso comune ma che se usati per definire se stessi diventano un modo per ritenersi migliori di altri, per lodarsi. Addirittura anche il padre del protagonista, interpretato dall’immenso Nick Offerman, è un concentrato di piccole tenere stranezze, di dolci devianze dalla normalità. Quello che era un rimosso, nel cinema americano, cioè il mondo di chi non è allineato, è diventato talmente uno standard da suonare nuovamente falso invece che più aderente alla realtà, da essere nuovamente incapace di dire qualcosa di vero.

Continua a leggere su BadTaste