Quel Fantastico Peggior Anno della mia Vita, la recensione
Apoteosi delle regole e dei limiti del cinema indie americano Quel Fantastico Peggior Anno della mia Vita suona fasullo come i film di Hollywood
Quel fantastico peggior anno della mia vita è esattamente questo: la degenerazione del cinema indipendente americano.
Tutto serve a raccontare di due ragazzi in età liceale, una malata di una malattia che potrebbe ucciderla e l’altro che viene inizialmente costretto dalla madre a fare amicizia con lei per cortesia. Lui si vanta di non mischiarsi con nulla e di sopravvivere nella giungla della high school proprio perché non prende rischi, è amico di tutti ma solo superficialmente, non ha nemici e come può si nasconde. Provate ad indovinare? Questa storia gli insegnerà che così non vive a fondo nulla e invece deve immergersi nell’agone della vita, accettando rischi, dolori e sofferenze.
Quel fantastico peggior anno della mia vita inoltre aggiunge anche uno strato di intellettualismo dichiarato, di ammirazione esposta per il cinema europeo, di citazione dei nomi che contano (da Herzog a Truffaut), di riferimenti che blandiscono il suo pubblico d’elezione confermandogli di fare parte del circoletto dei più svegli e acculturati, dell’elite contrapposta a tutto il resto. Sono tutti spunti in teoria buoni, parlare di grandi autori invece che di cretinate, mostrare la parte deviante della società invece del solito uomo comune totalmente conformato e piegato al flusso comune ma che se usati per definire se stessi diventano un modo per ritenersi migliori di altri, per lodarsi. Addirittura anche il padre del protagonista, interpretato dall’immenso Nick Offerman, è un concentrato di piccole tenere stranezze, di dolci devianze dalla normalità. Quello che era un rimosso, nel cinema americano, cioè il mondo di chi non è allineato, è diventato talmente uno standard da suonare nuovamente falso invece che più aderente alla realtà, da essere nuovamente incapace di dire qualcosa di vero.