Paterson, la recensione
Nella tranquilla Paterson vive il buon Paterson, tutto autobus e poesie, pochi problemi, molte certezze e una strana ma contagiosa voglia di sensibilità
Paterson è così, un film impalpabile e soffice, che ambisce a mettere in scena la cosa più complicata di tutte, nonchè la più velleitaria e maltrattata dal cinema banale: la poesia.
Paterson è il nome dell’autista protagonista che vive in una città anch’essa chiamata Paterson, molto fiera delle grandi personalità nate lì. Paterson (autista ma anche città) conduce un’esistenza tranquilla e ancorata agli anni ‘50, contornato da piccoli oggetti di un’epoca passata, quaderni di appunti in cui scrive le proprie poesie senza alcuna velleità di condividerle. Vive con una donna che ama e che ha molte strane idee. Incontrerà una bambina che sembra vedere il mondo come lui ed avere la medesima passione per la medesima forma di poesia senza rima. Succede poco altro.
Eppure forse il segreto di Pulcinella dell’incredibile leggerezza e del moderato buonumore che mette Paterson, sta nell’approcciare la poesia non tanto come un modo di esprimere i sentimenti presente nell’occhio di chi guarda, cioè nell’autore che la trova in vite che poetiche non sembrano per niente, ma nell’esporla continuamente. Tutto è poetico in Paterson, senza bisogno di esagerare e stuccare, tutto è sintomatico di un piccolo mondo sensibile di cui il film (caso più unico che raro) non si vanta per nulla, anzi cova un ammirabile pudore nell’esibire la propria intimità. Un pudore che pare quello silente di Aki Kaurismaki (ma meno burbero) e che scambia un po’ di mollezza per un po’ di autentica, ordinaria e moderata gioia. Che è proprio ciò che il cinema non mostra mai e che, scopriamo qui, ci piacerebbe vedere di più.