Non C'è Più Religione, la recensione

Sfilacciato e sconnesso, Non C'è Più Religione appare come un film a cui troppi hanno messo mano fino a che nemmeno i contributi illustri si distinguono più

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
C’è qualcosa che non torna in Non C’è Più Religione. Nel racconto, che guarda negli occhi Benvenuti al Sud per personaggi, attori e rapporto con il territorio, e che mette un sindaco di un’isola delle Tremiti, eletto per portare armonia tra la comunità arabo-musulmana e quella italo-cristiana, all’opera per un grandissimo presepe da farsi necessariamente con un bambinello arabo (gli italiani in loco non fanno più figli ormai da decenni), mancano proprio dei pezzi.

La sottotrama tra Alessandro Gassman, italiano convertitosi all’Islam e leader della comunità locale e sua madre (napoletanissima e ritiratasi a Mondragone dopo aver scoperto che il figlio non mangia più maiale), sempre essere stata rimontata a posteriori, come se prima dovesse essere diversa. Le loro conversazioni al telefono sono doppiate e gli stacchi su di lei che prepara le scatole piene di salumi appaiono sconclusionati rispetto al resto.
Ma anche la storia tra i tre protagonisti (oltre al sindaco, Bisio, al neoconvertito Gassman anche una suora, Finocchiaro, che con i due aveva avuto un triangolo amoroso) è accennata ma non approfondita, è il cuore del loro rapporto ma non sembra mai entrare nel vivo.

Ci sono insomma tantissimi dettagli che non tornano, elementi che paiono presentati come importanti e poi non lo sono. Nel complesso c’è la sensazione costante che le vedute dal drone dell’isola, al pari delle sequenzine musicali (un classico di Luca Miniero) e dei piccoli quadretti di Daniele Ciprì (veramente piccoli, pochi secondi) non siano il consueto condimento ma pezze che tengono insieme parti di racconto molto sfilacciate tra loro.

Ed è tutto tanto più strano quanto il fatto che Non C’è Più Religione impiega alcuni dei nomi più pesanti e altisonanti del nostro cinema, dal già citato Daniele Ciprì alla fotografia fino a Sandro Petraglia in sceneggiatura, eppure pare rimaneggiato e manipolato fino a che non si distingue più la mano di nessuno. Tra tutte poi l’assenza più cocente e incomprensibile pare quella del tono e delle idee di Astutillo Smeriglia, citato tra gli sceneggiatori ed evidentemente chiamato a portare un po’ della propria personalità, ma irriconoscibile nella scrittura (se non per un cammeo della voce di molte sue opere, in una telefonata, e poi nell’unica parte divertente, quella tra il cardinale e i locali, che pare contenere quell’umorismo deadpan visto in Preti).

Per il resto questo film, che come spesso accade a Miniero cerca di conciliare gli opposti, di rappresentare i conflitti più basilari della nostra società, mette a confronto due comunità, cristiani e musulmani, diffidenti ma ovviamente non così diversi. Il problema sembra essere sempre uno di tradizioni, anche quando ad essere coinvolto è il credo, del retaggio che le singole comunità si portano dietro. Ma rimane impossibile seguire un film così scollato, che inevitabilmente sacrifica le gag più strutturate (quelle che vengono dall’armonia del racconto, dalla comunicazione delle scene tra di loro) a favore di quelle più brutali, istantanee e raffazzonate.

Continua a leggere su BadTaste