Il Medico di Campagna, la recensione

Con pochissima vitalità Il Medico Di Campagna sembra sul serio più appassionato di medicina che delle vicende dei due protagonisti

Critico e giornalista cinematografico


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C’è pochissimo sapore in Il Medico di Campagna, melodramma sentimentale senza melò, storia di un uomo e una donna che si passano un testimone e forse di più, che però non ha mai la voglia di insistere su quel che racconta.
C’è un medico di provincia, un medico generico, che nella piccola comunità campagnola in cui vive è l’unico guaritore, lui lo sa e ne sente la responsabilità con un peso che dà un senso alla sua vita. È malato e cerca una sostituta che però abbia le caratteristiche a cui lui tiene di più, l’umanità e il rispetto dei pazienti. Quando arriva lei, da un ospedale di città, le prove cui la sottoporrà saranno durissime e il giudizio impietoso.

C’è insomma la vita e la morte dei pazienti e dei medici in questo film, c’è il tenero amore tra persone diverse con provenienze diverse, c’è l’esigenza per una donna di farsi valere agli occhi di un uomo burbero ma onesto e sincero. Gli elementi base di qualsiasi melò declinati in ambito campagnolo ma senza quel coraggio (e ce ne vuole) di prendersi talmente sul serio da esagerare senza risultare grottesco. Thomas Lilti invece preferisce giocare sul sicuro annacquando la zuppa e soffermandosi molto sull’etica medica e il lavoro del dottore di campagna.

Inutilissimo l’uso di François Cluzet che sviluppa una chimica quasi inesistente con la sua controparte Marianne Denicourt, non aiutati da una messa in scena che adora tenerli in due inquadrature separate. Ma del resto non sono aiutati nemmeno da una storia il cui climax è così blando che viene nostalgia delle pubblicità degli amari, in cui i sentimenti sembrano più vitali e gli intrecci sono più colorati e audaci.

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