Franny, la recensione

Il tentativo di Richard Gere di tornare nel cinema attraverso un indipendente si scontra con Franny, un film vecchissimo che dipende da lui per esistere

Critico e giornalista cinematografico


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C’è un amico ingombrante, ricco, potente e strafatto di antidolorifici nella vita della coppia protagonista, uno che vuole essere parte della loro famiglia, che li aiuta ma è troppo entrante. Vuole confidenza, si presenta di notte in cerca di medicinali, regala case intere al pari di lavori che da un momento all’altro può levare. Potrebbero essere le premesse di un thriller vecchio stampo, invece sono le premesse di un film girato intorno al suo protagonista, ad uso e consumo dell’immagine da attore di Richard Gere, parabola buonissima in cui nel cuore del ricco e potente si nasconde un trauma (chiaro agli spettatori fin dall’inizio) e quindi, implicitamente, una promessa di redenzione da mantenere a tutti i costi entro fine film.

Franny è un film vecchio che sa di vecchio, stantìo e immobile, per questo imperdonabile ad un esordiente come è Andrew Renzi, regista e sceneggiatore, di un film tanto innocuo quanto dipendente dal suo protagonista per la sua stessa esistenza. Se a Gere infatti si perdona facilmente l’esigenza di continuare ad essere al centro della scena e i continui tentativi di trovare un ruolo per sè e per la propria immagine in questi anni (suoi e del cinema), meno si può passare sopra ad un esordiente che arriva al cinema con un film anziano, con il minimo delle idee e il massimo della pigrizia, con la barba e i capelli lunghi usati come mutamento esteriore che certifica un’instabilità interiore, con i bambini malati a rappresentare la purezza(!!).

Anche Dakota Fanning, da tempo al di fuori del giro che conta e in questo film addirittura al di fuori anche dal centro della storia, sembra recitare sotto ogni suo standard, piegata al dettame di un’intera pellicola finalizzata a confessioni in lacrime e scene di rabbia, performance attoriali che contano sull’impressione più che sull’introiezione. Da sempre Richard Gere cerca lo stereotipo della “scena difficile” (che quasi mai è tale), i repentini cambi d’espressione e tono come gli accessi d’ira seguiti da momenti di dolcezza con lacrima, tuttavia quando ad inseguire questo tipo di soluzioni è un film intero è inevitabile ritrovarsi ad attendere con impazienza il finale.

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