Bif&st 2015 - Les Temps Des Aveux (The Gate) di Régis Wargnier

Les Temps Des Aveux di Régis Wargnier racconta il rapporto tra un francese e uno Khmer Rosso nella rivoluzione cambogiana dei primi anni '70

Condividi

Vinse un Oscar per Indocina nel 1992 dirigendo una grande Catherine Deneuve, la quale portò a casa il César come Miglior Attrice Protagonista (il suo secondo e ultimo, fino a questo momento).

In chiave più pop, Régis Wargnier è divertentissimo nella parodia di se stesso all'inizio di Femme Fatale (2002) di Brian De Palma quando presenzia in modo tronfio a una fittizia prima di un suo film al Festival di Cannes ignaro del fatto che la sua prima attrice/dama di compagnia (Rie Rasmussen) stesse facendo l'amore in bagno con Rebecca Romijn lasciandolo come un allocco irritato davanti a tutta la sala piena di pubblico e fotografi.

Al suo nono lungometraggio il regista francese classe 1948 continua le sue esplorazioni del sud-est asiatico traducendo in immagini il romanzo autobiografico di François Bizot, etnologo transalpino drammaticamente coinvolto dalla rivoluzione degli Khmer Rossi nella Cambogia dei primi anni '70.
Nel film Bizot è un uomo gentile, sosia di un giovane Jeremy Irons, sposato a una cambogiana, impegnato a esplorare i templi di Angkor e perfettamente a suo agio nei panni del progressista nonostante sappia benissimo che essere francese in Cambogia equivale a mantenere uno status di ex colonialista (la Francia arrivò a governare la regione nel lontano 1863).

Ma se i templi di Angkor non cambiano... i tempi sì. C'è il Vietnam in guerra a due passi e gli Khmer Rossi, ispirati dai Viet Cong, decidono di prendere in mano il controllo di un paese ancora gestito a distanza dalla Francia nonostante una formale indipendenza sancita dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Bizot viene scambiato per una spia della Cia, i suoi studi ad Angkor creano sospetti (interessante il rifiuto delle vestigia del passato da parte dei rivoluzionari molto simile alla furia iconoclasta dell'Isis di oggi) ed ecco che in quattro e quattr'otto lo fanno prigioniero.

Il film diventa presto un'opera sulla cattività in tempi di guerra dove nascono interessanti relazioni umani tra detenuti ed aguzzini. C'è una lunga tradizione cinematografica in questo senso a partire a La grande illusione (1937) d Jean Renoir (il rapporto tra Jean Gabin ed Eric von Stroheim), passando per Furyo (1983) di Nagisa Ôshima per arrivare all'ultimo Unbroken (2014) di Angelina Jolie.
L'aguzzino con cui Bizot stabilisce un rapporto conflittuale, ma non scevro da momenti di sincera umanità e dialettica culturale, si chiama Duch ed è uno Khmer Rosso riflessivo, incline all'ascolto e spesso bistrattato dai suoi stessi compagni rivoluzionari perché considerato troppo bonaccione (specie con Bizot).
Non è niente male il film di Wargnier. Semplice e asciutto come questa splendida giungla cambogiana che maestosamente accoglie quelle che sembrano le piccole gesta di noi minuscoli esseri umani.

Il rapporto di scala che il regista sceglie (attraverso un certo tipo di obiettivi) tra i suoi attori e il contesto naturale che fa da background, spiega perfettamente che per lui il Pianeta Terra in cui abitiamo è infinitamente più bello rispetto ai suoi belligeranti ospiti. C'era questa stessa idea nelle immagini bellissime de La sottile linea rossa (1998) di Terrence Malick.
Notevole anche l'intelligenza con cui Wargnier sviluppa il rapporto tra Bizot e Duch.
Non è mai melodrammatico o così monotono da risultare anticinematografico (come tra Uccello e Zamperini in Unbroken di Angelina Jolie) ma sempre ricco di sfaccettature nonostante sia politicamente inesorabile ("E' una guerra" ribatterà Duch ad anni di distanza quando chiederà di rivedere il suo "amico francese" dopo essersi convertito al cristianesimo).

Da questo punto di vista Wargnier ha avuto un'adesione totale da parte dei suoi attori protagonisti Raphaël Personnaz (Bizot), già ammirato in Una nuova amica di Ozon (è il marito dolce e inerte della protagonista) e l'eccellente Phoeung Kompheak (Duch) il quale è geniale quando reagisce chiudendosi in una imperscrutabilità tutta orientale di fronte alle accuse morali di Bizot nella splendida scena del confronto finale tra i due ad anni di distanza da quei dolorosi fatti dei primi anni '70. Bizot lo guarda stravolto ma non riesce ad aggiungere nulla alle sue accuse sempre più letterarie. Nella faccia dell'avversario ci sono anni di sottomissione all'Occidente che prima o poi sarebbero esplosi in una naturale ribellione.
"Devo la mia libertà a un assassino". In questa frase iniziale del vecchio Bizot pronto a ricordare in voice over i fatti della sua giovinezza c'è tutta la motivazione di questo bel film.

Quando la Storia ci mette l'uno contro l'altro, diventiamo dei nemici. Punto e basta.
Ma se rimangono dei momenti in cui un francese progressista e uno Khmer Rosso riescono recitare insieme la poesia La morte del lupo di Alfred De Vigny... allora l'umanità può ancora vincere la sua guerra contro la Guerra.

Continua a leggere su BadTaste