Regression, la recensione
Ritornato alle atmosfere familiari alla prima parte della sua carriera Amenabar con Regression non centra il colpo in pieno ma azzecca lo spirito
Regression è ambientato negli anni ‘90 e somiglia un po’ ad un film degli anni ‘90, si svolge in una delle zone d’America colpite dall’ondata satanista e inizia quando una ragazza accusa la propria famiglia di averla obbligata a partecipare ad un rito satanico. Quest’accusa scoperchia una pentola e riporta a galla sospetti e indagini dell’FBI in materia, tutto in mano ad un detective di provincia dalla dura fibra morale e l’incrollabile fiducia nella scienza. Ad aiutarlo uno psichiatra esperto di ipnosi regressiva, metodo con il quale addentrarsi nella testa dei sospettati. C’è quindi già l’idea che la mente nasconda cose nello spunto, ma Regression lavora per andare più a fondo.
Perché in Regression è tutta una questione di ragionamento e di logica, nonostante il regista abbia la consueta maestria nel gestire la suspense (l’assalto in casa del detective è in questo senso esemplare) nel film si sente molto la mancanza di un vero coinvolgimento. La scelta di Emma Watson nel ruolo della ragazza che accusa la famiglia pare perfetta, considerata l’evoluzione del personaggio, la sua remissiva carica sessuale a metà tra innocenza e allusione è l’aria giusta. Eppure Regression sembra l’opera di un regista fuori forma, fiacco e che crede poco in quel che fa.