Shark - Il Primo Squalo, la recensione

Vecchio stampo da ogni punto di vista, Shark - Il Primo Squalo riesce ad essere il ritorno al cinema di una volta che auspica

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
Il punto di partenza di Shark - Il Primo Squalo è il più classico che possa esistere, quello che ha trionfato nel cinema d’avventura (e di orrore) di tutta la prima parte del novecento, cioè che esista ancora una parte del nostro mondo che non conosciamo, inesplorata e sconosciuta (sia un’isola remota, il centro della Terra o un territorio nel mezzo di un’immensa foresta amazzonica) scoperta da un team di esploratori che, primi in assoluto, ci si spingono. È così l’abisso marittimo che nessuno aveva mai scoperto perché coperto da una coltre che pare un fondale e invece può essere superata per accedere a una zona che, come tutte quelle inesplorate, è un punto in cui può esistere di tutto: creature ignote, scenari mai immaginati e soprattutto avventure selvagge.

Perché alla fine Shark è in tutto e per tutto un film che desidera essere vecchio stampo e ci riesce (gioca un ruolo non da poco in questa prospettiva il suo essere a produzione tanto americana quanto cinese), in cui un’eroe d’azione che ha tutto di tradizionale e pochissimo di moderno risolve nella maniera più spiccia e diretta la problematica, affidandosi poco alla tecnologia e molto alle mani, che dichiarerà in una rara scena di dialogo intimista in cui una donna e una bambina lo incastrano a parlare di sentimenti: “Questo è il momento più brutto della mia vita”. Uomini che fanno gli uomini e occupano il posto tradizionalmente occupato dagli uomini.

Il volto e il corpo sono quelli di Jason Statham (chi se no?), elevato finalmente al rango di protagonista in un film ad alto budget, chiamato a replicare i fasti del cinema d’azione americano degli anni ‘80 (un compito che grava su di lui da sempre e che sembra eseguire con regolarità impressionante), in cui eroi nerboruti dal volto ineffabile e dalla one-line sempre pronta non vengono creduti da un team di pusillanimi occhialuti ma sanno rimandare al mittente i desideri (ovviamente femminili) di “una soluzione non letale per l’animale”.
In questa sua missione Shark è un film perfetto, ben equilibrato e mai appesantito dalla necessità di ripetere a oltranza lo scontro con lo squalo ma anzi graziato da livore urbano che Statham porta sempre con sé, una sorta di atteggiamento da periferia, incattivito e sempre pronto a mordere, che non abbandona nemmeno in mezzo al mare quando con la muta esegue da sé i suoi stunt (l’attore nasce tuffatore olimipico).

Decisamente più Stephen Sommers che Steven Spielberg, Shark solo per un breve momento imita il modello aureo di Lo squalo, portando la minaccia in una spiaggia affollata e combattendola con una barca troppo piccola. A differenza di quel film però stavolta la “barca più grande” verrà presa e la battaglia continuerà nel regno della fantascienza, con navicelle subacquee che paiono spaziali, alternate a soluzioni massimali fiocina e coltello.

Certo Jason Statham, al suo primo ruolo tramite il quale reggere un film più ampio e complesso del solito, non mostra di essere migliorato molto nelle necessarie scene di transizione e di dialogo in cui dare un senso e una profondità al personaggio, ma del resto non è mai stato questo l’obiettivo primario di Shark.

Continua a leggere su BadTaste