Zelig, i quarant’anni dell’uomo camaleonte
Zelig di Woody Allen compie quarant’anni, ed è ancora oggi il film più assurdo ma anche autobiografico del regista americano
Zelig compie quarant’anni: uscì in Italia il 23 settembre 1983 dopo essere stato presentato al Festival di Venezia
Per cui è impossibile guardare Zelig e non pensare che dietro Leonard si nasconda Woody Allen, una persona insicura che tende a confondersi con lo sfondo e a mimetizzarsi con gli altri per riuscire a piacere – che è poi quello che fa un attore in generale. Certo il protagonista del film vive immerso in un realismo magico che rende reale e tangibile la sua capacità di assumere le sembianze della persona con cui parla: fa tra l’altro un certo effetto oggi vedere Woody Allen in blackface, o truccato da orientale, ma anche con i capelli rossi tipici dell’archetipo irlandese. Ma la richiesta di fondo, del protagonista e dell’attore e regista che lo interpreta, è sempre la stessa: voglio essere ignorato, ma anche apprezzato, esistere e venire accettato senza però mai diventare il centro dell’attenzione.
All’atto pratico questo desiderio recondito ma decisamente non inconscio diventa soprattutto il motore di infinite scenette buffe: Zelig è anche un film molto divertente, perché Woody Allen è uno dei pochissimi autori comici che non ha mai rinnegato le risate come strumento di creazione di significato e non solo come riempitivo tra un pop-corn e l’altro. E qui la sua dedizione alla gag è massima, se pensate che per rendere credibili gli effetti speciali che vedono Leonard Zelig interagire con figure storiche del Novecento fu impiegato il tempo che servì ad Allen per girare Commedia sexy di una notte di mezza estate e Broadway Danny Rose. Il risultato, peraltro, a quarant’anni di distanza regge ancora alla grande, e non può non ricordare qui e là Forrest Gump.
Sotto la facciata di risate, però, Zelig nasconde (e neanche tanto bene, a tratti) tutta la tristezza e soprattutto il senso di inadeguatezza che hanno sempre caratterizzato la carriera – e, immaginiamo noi da fuori forse confondendo l’arte con l’artista, anche la persona – di Woody Allen. È un film che parla degli eccessi a cui arriviamo pur di piacere agli altri, pur di integrarci ed essere parte di qualcosa, non spettatori o grandi esclusi. La sua morale è talmente evidente che è impossibile da mancare, e il messaggio che vuole lanciare sembra allegorico ma è molto concreto e letterale: siamo maschere, mutaforma, persone in senso junghiano, o personaggi pirandelliani se preferite.
E vale ovunque, dice Zelig, anche in amore: Eudora (Mia Farrow), la dottoressa che si prende a cuore il caso di Leonard, si avvicina a lui fino a innamorarsene perché lo trova una curiosità, perché è affascinata dalla sua maschera al punto che quello che si trova sotto ne è solo una funzione, e non l’obiettivo finale. Avrebbe amato Zelig se non fosse Zelig, se non gli crescesse la barba o una laura in medicina a seconda della necessità del momento? O l’avrebbe ignorato, in un modo che tutto sommato allo stesso Zelig non dispiace del tutto?
È un film di domande, che presenta una situazione assurda ma nella quale è facilissimo identificarsi se si sospende anche solo un pizzico l’incredulità. E che quindi ci porta a chiederci come ci comporteremmo, come dev’essere vivere con questa maledizione, quante volte anche noi siamo facciamo i camaleonti senza rendercene conto. Ecco, il vero lascito del film di Woody Allen è questo (non è un caso se “zelig” è diventata una parola di uso comune e non solo negli Stati Uniti): ci ha costretti a guardare nello specchio e ad ammettere che anche noi, più o meno occasionalmente, più o meno volontariamente, siamo Leonard Zelig.
E riconoscere di avere un problema è il primo passo per risolverlo.