#Top2015: I 15 migliori film usciti in Italia quest'anno secondo Gabriele Niola

Almeno un pugno di opere memorabili e diverse sorprese non da poco da autori nuovi. Pochi grandi maestri e ben due film italiani

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

Quest’anno ho pensato a tre liste per i migliori film. Quella veramente inevitabile è la top15 delle pellicole migliori “uscite in Italia”, sostanzialmente i film che più paiono memorabili di quest’annata tra quelli che hanno ricevuto una distribuzione. Le altre due invece sono una top10 dei titoli più belli visti in giro a festival o manifestazioni varie (recensiti o meno) che però non sono mai usciti e non è chiaro se usciranno mai in Italia e un’altra che contiene una serie di film usciti in Italia che per un motivo o per l’altro non possono rivaleggiare con quelli di questa top15, perché magari non ne hanno le ambizioni o la grandezza ma nel loro piccolo sono sorprendenti e più che riusciti, l’abbiamo chiamata la “Top10 dei film di genere” perché contiene commedie sentimentali, film di menare, cinema d’azione, thriller e paura.

Dunque gli unici bei film a rimanere fuori da tutto sono quelli che abbiamo già visto e recensito ma che sappiamo usciranno nel 2016 (da Il figlio di Saul a Lo chiamavano Jeeg Robot fino a Steve Jobs, Anomalisa e Il caso Spotlight, tutti protagonisti annunciati della classifica che faremo a fine 2016).

15. Dove eravamo rimasti?

Su un canovaccio molto basilare Diablo Cody scrive dei personaggi memorabili capitanati da Meryl Streep e inquadrati, montati e messi in scena con invidiabile sentimentalismo da Jonathan Demme. Con il minimo delle ambizioni e il massimo della maestria questo film di madri e figlie, di famiglie che si riuniscono per un matrimonio con balli e musica di sottofondo, come fossimo a Bollywood, commuove e smuove. Dove eravamo rimasti sposta i suoi personaggi dalla zona del banale e gli fa mettere un piede nel mai visto per colpire lo spettatore dai punti che meno si attende. Alla fine fa anche uno dei migliori usi d una canzone di Springsteen che si ricordino.

14. Fury

Per David Ayer la guerra è un massacro che non ha senso. Non è l’unico cineasta a vederla così ma Fury è talmente radicale in questo punto di vista da andare dove altri non si sono spinti. Così incattivito dagli eventi da riprendere senza meraviglia anche un pezzo di volto di soldato rimasto per terra dopo un’esplosione.
Un plotone a fine guerra è ancora costretto a massacrare ed essere massacrato nonostante tutti sappiano che la chiusura delle ostilità è solo a pochi giorni da venire, c’è un senso di futilità fortissimo nell’aria. Senza nessun riguardo per la transitorietà della vita, Fury mostra uomini arrivati a fine corsa, deliranti che finiscono per tuffarsi di testa nell’inferno dei corpi dilaniati e chiude con un inferno di luci rosse e desiderio di morte.

13. The visit

Shyamalan è tornato e ha realizzato un piccolo saggio di tensione. Il suo found footage è un trionfo di piccole tecniche di messa in scena unite con ammiccamenti e dialoghi che lasciano intendere più che dire. Unendo umorismo, un’impensabile leggerezza e grandissima tensione The visit è il film di un grande regista che per decenni si era perduto ma ora è tornato tra noi. Squartiamo il vitello grasso.

12. Blackhat

Non è andato per niente bene Blackhat, è stato un fallimento per Mann. Totalmente idealizzato, radicale e fondato sulla fine dell’eroismo e quindi la sua celebrazione, sembra quasi che i suoi personaggi cerchino di emanciparsi dallo statuto di protagonisti del cinema d’azione e cerchino per sè un posto e un domani migliore. Eppure sono costretti nella gabbia del noir moderno, nella spirale di perdizione, in queste città che prendono sempre di più il ruolo di protagonisti. Blackhat ha una vocazione quasi spirituale per come è permeato di un senso di perdizione più grande dei semplici personaggi, per come la colonna sonora crea ambienti invece che fomentare le scene. Non è nemmeno più action movie, sconfina direttamente in un’altra categoria da se stesso fondata, fatta di epica asciutta (un ossimoro che solo Mann mette in scena davvero) e pura modernità.

11. The Babadook

Invece che stare nella classifica dei film di genere sta qui The Babadook perché è una piccola rivoluzione. Diretto da una donna, Jennifer Kent, e pensato per raccontare una donna, la protagonista, questo film di paura puro, realizzato con alcune delle sequenze più spaventose dell’anno chiude madre e figlio in casa e gioca al gatto con il topo con il rimosso, il retro del cervello e le suggestioni più ancestrali.
The Babadook mostra le sue carte almeno dopo la metà ma si svela realmente solo in uno dei più grandi finali che il cinema di paura conosca, uno dei pochi ad andare oltre la semplice contrapposizione di un protagonista ad una presenza.

10. Star Wars - Il risveglio della forza

Tarato sugli standard del cinema aureo di Spielberg, pensato per svolgersi esattamente nel mondo della prima trilogia cancellando qualsiasi riferimento visivo o di trama alla nuova, l’impresa di realizzare un nuovo Guerre Stellari è il capolavoro di Abrams. Cinema commerciale ai massimi livelli che trova nella tecnica e nel piacere dell’azione la sua ragione d’essere. Fondato su una protagonista femminile cerca di spingere più in là quello che i blockbuster contemporanei fanno con la nuove donne forti, lavora fortissimo sul montaggio interno e così realizza alcune tra le migliori sequenze d’azione dell’anno.

9. Non essere cattivo

L’ultimo film di Claudio Caligari è stata la sorpresa italiana dell’anno. All’altezza dei film che ha realizzato diversi decenni fa, questo racconto di malavita priva di fascino ma piena di umanesimo riesce a tenere un piede nel realismo che rifiuta la retorica e un altro in uno sguardo poetico. Come raramente capita questo film si differenzia da tutti gli altri per come guarda i suoi personaggi, per la schiettezza di cui è capace e la comprensione di cui vuole essere pieno.

8. Whiplash

Damien Chazelle ha girato un film pieno di umorismo e tensione, un Rocky con la batteria jazz al posto del pugilato ma anche qualcosa di più. Dietro la patina del cinema sportivo in cui un singolo cerca di vincere i propri limiti fisici attraverso la volontà, si nasconde un film che pulsa rabbia giovane, capace di caricare la vena del cervello con una tensione verso il risultato che non appartiene al solito cinema americano. Disposto a sacrificare tutto, dalla famiglia all’amore senza alcun pentimento (anzi! Dimostrando d’aver fatto bene), il protagonista di Whiplash aspira alle vette e per raggiungerle piega la musica al sangue, finendo per unire quelli che fino a ieri (per il cinema) erano opposti, ovvero il jazz delle big band e una vita vissuta al massimo.

7. Mustang

Questo piccolo film turco è stata una scoperta. Sei sorelle sono tenute prigioniere da una famiglia bigotta, ognuna a modo suo vuole liberarsi, tutte insieme sognano di essere autonome ma forse una sola ci riuscirà. L’ingiustizia reale dei più antichi retaggi che si scontra con il ribellismo giovanile moderno è una trama che abbiamo già sentito ma in Mustang si arricchisce dei desideri più concreti, delle cosce e dei capelli, delle pulsioni e del dell’eccitazione. Le sei protagoniste, tutte immaginate con lunghi capelli neri come i cavalli del titolo, non sono adolescenti impazienti ma esseri umani completi, contraddittori e armati di quella forza di volontà che anima il cinema più ostinato.

6. Louisiana

C’è un territorio del cinema inesplorato e vasto, uno in cui si può intravedere una figura solitaria più avanti di tutti, con i piedi dentro lo sconosciuto che guarda avanti e non indietro. È Roberto Minervini. Il suo cinema documentario pieno di finzione porta a film d’osservazione in cui tutto è vero eppure niente lo è fino in fondo, personaggi ripresi nella loro quotidianità ad un livello di intimità quasi impressionante e poi montati insieme perché le loro vite aderiscano alla scansione dei film invece che a quella della vita naturale. Minervini cambia tutto il processo del filmmaking, dal soggetto fino al lavoro sul “set”, e da solo trasforma il documentario più puro e meglio girato (incredibili le immagini che tira fuori senza poterle preparare) in cinema di finzione con la sola arma del montaggio. Tuttto ciò in Louisiana è messo al servizio di storie che esistono al limite del possibile, persone e comunità che nessuno racconta e che Minervini non mette in scena ma penetra intimamente con una prossimità e una verità che solo l’iniezione di finzione nella realtà consente.

5. Il racconto dei racconti

Se Roberto Minervini esplora da solo un territorio vergine del cinema Matteo Garrone compie la medesima fusione di vero e falso nel cinema di finzione. Il racconto dei racconti parte dal massimo del falso (le favole) per cercare il concreto, il reale, i veri giganti come i veri castelli, i luoghi più materiali e concreti ripresi per sembrare in computer grafica e viceversa. Ad oggi Garrone è l’unico cineasta italiano dotato di un occhio capace di scovare il cinema nella realtà non edulcorata, l’unico che dalle location crea ambienti in grado di parlare, che dai corpi meno usuali per lo schermo crea sensazioni, tutto fino ad arrivare a sfondi che sono sfidanti dei personaggi, come se avesse studiato cinema in Russia.

4. Fuochi d’artificio in pieno giorno

Nonostante l’Asia non sia più la fonte di novità esaltanti che era fino a qualche anno fa lo stesso è ancora in grado di portare i migliori esempi di scontro violento con la modernità. La Cina in particolare riesce ancora a fare film come questo, polizieschi che si estendono nella durata a diverse decadi per raccontare il mutamento e contaminare tutto questo con una disperazione e una perdita d’identità fortissimi. Fuochi d’artificio in pieno giorno racconta di un’indagine che ha a che vedere con una miniera di carbone ma usa tutto questo come pretesto per agire in un mondo terribile, dove la sopraffazione umana sembra quella del mondo animale. Non è la trama a colpire quanto l’umanità che testimonia.

3. Mad Max - Fury Road

George Miller ha settato uno standard nuovo. Realizzando un film che è costruito su due inseguimenti e null’altro, porta alle estreme conseguenze non solo il suo cinema e la sua saga ma soprattutto il percorso compiuto dal cinema d’azione, genere da sempre fondato sul movimento ma negli ultimi decenni intento a sposare quello interno all’inquadratura con quello dell’inquadratura stessa. Dolly, droni e veicoli armati di videocamere si muovono tra camion e auto realmente in corsa, portando su di sè i veri attori e non le loro controfigure. La messa in scena di un mondo mitologico dotato di sue regole solo parzialmente accennate si fonde con l’esatta mescolanza che oggi dobbiamo aspettarci tra analogico e digitale, veri stunt e ritocchi pittorici. Il risultato è il piano regolatore del miglior cinema moderno, intento a narrare sensazioni viscerali più che le solite storie.
Mad Max: Fury Road è puro cinema animalesco, grido di follia e urlo drogato di testosterone, in un trionfo di sublime tecnica fotografica e montaggio millimetrico, cinema di una precisione disarmante al servizio della rappresentazione della furia. Come fosse il dipinto di una nave nel mare in tempesta Miller realizza un’opera d’arte che sbatte sullo schermo la parte più animale della razza umana senza raccontarla ma trasmettendone la rabbia.

2. Inside out

Finalmente la Pixar torna in cima alle classifiche di fine anno e lo fa con quello che probabilmente è il suo capolavoro definitivo. Sembra difficile (per quanto rimanga auspicabile) che lo studio animato possa superare la complessità e la sofisticazione di questo film che rappresenta il massimo dell’umano (la mente e le sensazioni) con il massimo del tecnologico, immaginando l’animo come una startup, una società di stampo statunitense, una fabbrica e poi uno studio di produzione, ragionando sull’estetica dei videogiochi e mettendola a servizio del mondo interiore umano. La massima fusione dell’illuminismo pixariano (per il quale i veri sentimenti si comprendono solo osservando immagini registrate mai dalla realtà e le palle di ricordi non fanno eccezione) passa per il massimo amore per la modernità e le sue possibilità, attraverso la metafora della mente di una ragazzina.
Lo sforzo di questo studio di sollevare dentro ogni spettatore le emozioni più semplici, rifiutando la complessità di fruizione (e riuscendoci con un lavoro, quello sì, complesso) ha portato al più naturale dei viaggi in cui riconoscere, come in uno specchio, la propria natura e quella dei propri simili.

1. Vizio di forma

Solo Paul Thomas Anderson e le sue colonne sonore che si sovrappongono, i suoi ampi riquadri colorati in cui la fotografia combatte per tenere fermi personaggi che non ne vogliono sapere, poteva raccontare una storia come quella di Vizio di forma. Intricata e poco chiara come tipico della tradizione del noir losangelino, l’indagine di Doc Sportello è solo il suo viaggio nei ricordi e nella perdita, nella nostalgia dei propri sentimenti e di una vita che non vivrà. Vizio di forma è di nuovo un film che gira intorno al rimpianto, come Magnolia, uno a cui interessa solo come quest’uomo venga riportato nel vortice delle pulsioni che non sa frenare da una donna, puro corpo sessuale, e come cerchi di rimanere vivo in una serie di scoperte a catena tra l’esilarante e il folle, che sembrano non potersi mai fermare se non ci fosse un cineasta a chiudere le riprese.
Adattando un romanzo di Pynchon, Paul Thomas Anderson trova il suo film più compiuto, una commovente opera d’arte narrativa moderna, che mette in scena i suoi fatti non concedendo nulla all’approccio classico ma usando tutti gli strumenti dello storytelling audiovisivo contemporaneo. Doc che attende il proprio destino in una sera d’estate sdraiato tra il blu e il viola, con una brezza che accompagna la donna che lo porterà negli eventi o anche Doc che ricorda quel giorno di pioggia in cui, drogatissimi e in astinenza, vagarono alla ricerca di una dose e subito dopo lo stacco sui medesimi luoghi nel presente, ci sono infiniti momenti di Vizio di forma nei quali la complicata fusione di racconto, fotografia, interpretazione o anche solo un rumore di pelle umana contro pelle del divano scoperchiano universi di desideri carnali e sentimentali insieme, un mondo di abbandono e mancanza. Vizio di forma mette in scena in una parola le madeleine di una vita che il pubblico non ha vissuto.

Continua a leggere su BadTaste