The Elephant Man, John Hurt recita solo con mezzo corpo

La più grande prestazione di John Hurt, tra recitazione con il corpo, messa in scena e un inferno di make-up. L'Elephant Man che si muove come un animale

Critico e giornalista cinematografico


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Il fatto che i ruoli più noti di John Hurt siano una parte di supporto in un film di fantascienza in cui è il primo a morire per un alieno che gli esce dallo stomaco, e un altro ruolo in cui non è mai riconoscibile dall’inizio alla fine, la dice lunga su quello possa fare un attore con poco, senza battute o solo con il corpo. Lo sa bene Andy Serkis che, con tecnologie e in epoche molto diverse, della recitazione nascosta è un maestro.

John Hurt è stato l’attore di supporto d’eccezione per 30 anni di cinema americano e mondiale, una presenza fenomenale, indelebile anche con un pugno di battute a film. Specialista di quell’arte particolare che consiste nel fare il medesimo lavoro dei protagonisti con un decimo del tempo a disposizione, ovvero raccontare la complessità umana, rendere un personaggio memorabile, dare solidità ad un carattere scritto sulla carta, John Hurt in The Elephant Man ha portato a termine il suo più grande trionfo.

Non è solo questione di lavorare con un trucco che lo rendesse irriconoscibile (7 ore al giorno, e poi circa 12 di riprese, ma lavorando a giorni alterni per evitare di crollare sotto il peso della fatica), lo sforzo di essere Joseph Merrick in un film emotivamente complesso, stava nel non poter appoggiarsi mai alle proprie espressioni, al lavoro minuzioso sulla parte più espressiva del corpo umano, il volto.
Se Anthony Hopkins, co-protagonista del film, ha in The Elephant Man alcuni dei momenti migliori della propria carriera, proprio per come gestisce con un’economia sentimentale invidiabile, l’attaccamento del medico a questo paziente assurdo ma unico, Hurt senza faccia aveva un arco emotivo e sentimentale anche maggiore, da reietto a fiero, da subumano a umano, qualcosa di complicatissimo anche senza tutto quel trucco.

L’uomo elefante non è solo l’oggetto dello studio e il motore immobile del cambiamento negli altri personaggi ma egli stesso passa da creatura spaventata a uomo realizzato in punto di morte. John Hurt realizza questo piccolo miracolo comportandosi come un animale, lavorando solo sul corpo e relativamente sulla parola. Inguainato in un corpo maldestro e goffo, limitato nei movimenti, lo stesso riesce con un linguaggio primordiale a comunicare il disagio e l’amore, l’adeguamento e addirittura, in una scena che davvero è un trionfo di vera recitazione, solo la sua silhouette trasmette vergogna.

Non sfugge che in tutto questo la messa in scena di David Lynch ha una centralità non da poco, cioè non è solo come John Hurt occupi la scena a fare la differenza ma come le inquadrature siano organizzate (e montate!) intorno alla sua prestazione per dare una lettura chiarissima fin da subito. Ad esempio Lynch tratta il protagonista come la creatura di un film di mostri, sa che il pubblico brama vederlo e allora lo nasconde, sotto un mantellone oppure dietro un paravento, fino a che, la prima volta che lo rivela, lo incastra nell’angolo di una soffitta, spaventato e deforme e in quei pochi secondi della sua prima inquadratura chiara e completa il corpo di John Hurt è tutto un fremito di paura per la situazione.

Ancora di più ci sono due momenti emblematici di questo film che si susseguono a breve distanza e danno la misura di quanto possa essere minuzioso il lavoro di un grande attore anche in quelle condizioni. Sono la presentazione medica che Anthony Hopkins fa di Merrick e solo una decina di minuti più tardi l’esposizione più brutale che ne viene fatta nel circo dei freak. Joseph Merrick, l’uomo elefante, è esposto alla meraviglia della comunità scientifica e poi al pubblico ludibrio e orrore, e John Hurt muovendosi quel pochissimo che gli è concesso “subisce” gli sguardi in maniere completamente diverse. Di nuovo aiutato dalla messa in scena (la prima volta vediamo solo la silhouette dietro un paravento, la seconda lo vediamo a figura intera), mostra due modi diversi di provare vergogna e umiliazione, lavorando di posizionamento dei piedi, di movimenti ingessati e postura.

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