Jacques Rivette, è morto il padre meno conosciuto della Nouvelle Vague e della cinefilia moderna

Critico, regista e autore della Nouvelle Vague, Jacques Rivette non è mai stato noto come Truffaut o Godard ma fu una pietra miliare del cinema moderno

Critico e giornalista cinematografico


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È di Jacques Rivette il film che Antoine Doinel e la sua “famiglia” vanno a vedere nell’unica scena realmente spensierata di I 400 Colpi (non a caso ambientata dopo la visione di un film), si chiama Paris nous appartient e solo poche volte viene citato con il titolo italiano Parigi ci appartiene. La storia di quel film è un po’ la storia di Jacques Rivette, critico cinematografico come lo erano Truffaut, Godard o Chabrol presso i Cahiers du Cinema, e parte integrante di quel movimento cui diedero vita ma decisamente meno noto.

Parigi ci appartiene venne girato a partire dal 1957 con mezzi di fortuna e attori che in realtà erano amici (compaiono tra gli altri anche Godard, Chabrol, Demy e Rivette stesso), un po’ come tutti gli esordi di quella generazione. Diversamente dagli altri però il film non riuscì ad uscire fino a che non fu alta la febbre Nouvelle Vague, grazie ai lavori di Truffaut e Godard. Come già Le beau Serge o A doppia mandata di Chabrol, nessuno ricorda mai Parigi ci appartiene come primo film della Nouvelle Vague, come raramente Rivette viene ricordato come mente dietro quella grande svolta. Scrittore e cinefilo che ha contribuito a creare e partorire le idee dietro la politica degli autori, è stato in parole povere uno dei fondatori del concetto di “cinefilia” come continuiamo ad intenderla ancora oggi, nonostante tutto lo scenario e il mondo del cinema intorno a questa parola sia radicalmente cambiato.

Come fosse rimasto scottato dal suo primo lungometraggio dal parto faticoso, poi messo in ombra dagli equivalenti di colleghi e amici (per quanto il posizionamento dentro I 400 colpi è un onore che lo rende immortale e tutti gli abbiano sempre riconosciuto i suoi meriti), Rivette poi ha lavorato pochissimo nel cinema dietro la macchina da presa per tutto il periodo caldo della Nouvelle Vague, preferendo stare davanti agli schermi. Le poche opere che girò negli anni ‘60 ebbero problemi di censura (Suzanne simonin la religiosa) o furono frutto dello spirito del tempo (L’amour fou e i fatti del maggio del ‘68). Negli anni cruciali insomma Rivette si è dedicato più che altro alla critica su quelle testate che lentamente i suoi coevi lasciavano a favore della produzione filmica.

Solo dopo, quando la spinta della Nouvelle Vague si era esaurita e ogni appartenente aveva preso una sua strada autonoma, Rivette è uscito di nuovo fuori dalle sale per girare.

Paris-Belongs-to-Us

Ciò che lo accomunava a Rohmer, Truffaut, Godard e Chabrol era la passione per un certo tipo di storie, il culto della donna intesa contemporaneamente come meraviglioso oggetto sessuale e come presenza romantica. Uscendo da anni in cui la sessualizzazione al cinema era quasi inesistente, Rivette come molti contemporanei era assetato di ciò che era possibile fare al cinema con l’esposizione del corpo della donna. Come loro amava rappresentare lo spettacolo, il making delle opere teatrali o il mondo che sta dietro ai film. Ciò che invece lo rendeva unico avvicinandolo a Jean Cocteau (i quale l’aveva spinto a girare i primi corti), era il simbolismo e l’amore per il fantastico, la voglia da un certo momento in poi di non essere ancorato al realismo.

Nella seconda e più prolifica parte della propria carriera i suoi film adoravano il simbolismo e l’impossibile. Col tempo Rivette ha anche sviluppato una tecnica legata all’improvvisazione e come spesso accade in questi casi si è appassionato dell’uso di gruppi di attori. Amava comprenderne molti nelle scene e gestirli come piccoli pupazzi.

Nonostante la grande pausa dei ‘60 Jacques Rivette era in realtà un bulimico di film, uno in grado di girarne anche 4 uno di fila all’altro o realizzarne uno (Out 1, noli me tangere) di tredici ore di durata. Non ha mai smesso di girare e fino al 2009 ha realizzato almeno un lungometraggio ogni 2-3 anni, tenendo una media impressionante per chiunque ma non per quella generazione che del fare film sembrava aver fatto una missione e che di cinema aveva sempre sostenuto di poter vivere.

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