Lunga vita a Woody Allen, il regista che tutti amano dare per morto

Cineasta immenso Woody Allen oggi compie 80 anni e non sembra rallentare la sua impossibile media di un film l'anno, aggiungendo anche una serie tv.

Critico e giornalista cinematografico


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Nessuno è stato dato per finito più volte di Woody Allen. E in nessuno caso, nessuno si è mai sbagliato di così tanto. Ogni volta.

Sono almeno 20 anni che Allen viene dileggiato all’uscita di un suo nuovo film, tacciato di non essere più quello di una volta (“ci piacevano più i tuoi primi film quelli divertenti” gli dicevano già gli alieni in Stardust Memories, ed era il 1980), di essere ormai stanco, vecchio, privo di ispirazione e sempre uguale a se stesso, poi quando porta in sala uno dei suoi imprevedibili cambi di tono tocca quelli che lo accusano di non essere più in grado di fare quello che faceva bene una volta.

Tutte queste critiche, prese tutte insieme sono la cronaca di quanto quest’autore immenso non sia capito e a quanti livelli diversi questo accada. Non è capito non solo perché i suoi film continuano ad essere il miglior cinema immaginabile anche oggi, ma soprattutto perché i suoi cambiamenti sono la parte migliore della sua produzione, il suo non essere sempre Allen è il segreto della sua grandezza. Non è capito perché tutti da Woody Allen vogliono gli allenismi, vogliono la loro idea preconcetta di cosa sia un film di Woody Allen (solitamente ricalcata sul modello di Manhattan o Io e Annie a seconda del carattere), senza rendersi conto che invece la sostanza dei suoi film sta sempre altrove ed è sempre stata altrove, non nelle battute o nell’umorismo caustico ma in un rapporto commovente e unico tra personaggi e paesaggi. Non a caso il suo signature shot, l’inquadratura simbolo che ha inventato lui e che usa quasi sempre, è quella in cui due persone parlano camminando, inquadrati in diagonale, solitamente dalla strada, spesso e volentieri in un totale che mostri anche tutta la città dietro di loro o con un carrello che li segue.


Questo regista incredibile da un film l’anno (media che è rimasto l’unico in grado di sostenere in occidente da quando anche Clint Eastwood ha allungato i propri tempi), vero autore nel senso della politica degli autori, vero impiegato del cinema e operaio della creatività (quando finisce un film si prende un giorno di vacanza, poi quello seguente si siede alla scrivania del suo ufficio con un foglio bianco davanti, mette un disco jazz e comincia ad immaginare storie) consegna con regolarità impressionante storie tra il fantastico e il genere, tra la commedia e il drammatico che non parlano mai di società ma sempre di individui, della solitudine cui siamo rassegnati, anche in coppia, e dell’ingiusto caos che regna nel mondo.
Solo questa costanza e questa modalità di produzione fuori dal mondo, che spaventerebbe chiunque, potrebbe essere una chiave di lettura delle sue opere, ma troppo forte è la particolarità del suo stile di regia per non concentrarsi su quello, troppo forti le scelte che compie in ogni film e l’ambiguità che le ultime opere gettano sulle sue consuete storie per non amarle.

L’uomo che oggi compie 80 anni sta per consegnare la sua prima serie tv ad Amazon (cosa per la quale è disperato, che ha dichiarato di aver accettato troppo frettolosamente e che lui stesso pensa verrà malissimo) e ha comunque in cantiere il consueto Untitled Woody Allen Project. Come ogni anno.
Tutto ciò mentre darlo per finito (creativamente) è l’attività più amata da tutti, assieme a ricordarne i vecchi successi, solo che di anno in anno i “vecchi successi” si fanno sempre più recenti e in certi casi coincidono con i film, all’epoca della loro uscita, considerati fallimentari. Oggi ad esempio si cita Match point come uno dei “buoni vecchi film di Allen” quando invece nel 2005 era guardato come una degenerazione. La potremmo chiamare la spirale dei giudizi su Woody Allen.

In realtà, anche ripercorrendo al contrario la sua filmografia, è evidente che questo cineasta prolifico come i registi hollywoodiani degli anni ‘40 e ‘50 è forse il più solido e affidabile in circolazione. L’unico in grado di girare un film come Irrational man, di sottile ottimismo e cinico omicidio (lo vedremo in sala tra poco ed è appassionante), dopo il leggerissimo e adorabile Magic in the moonlight (forse il film più solare della sua carriera, chi l’avrebbe mai detto che Allen avrebbe avuto fiducia nell’amore che vince su tutto?!) e Blue Jasmine, dramma da Oscar (per Cate Blanchett) che ne ha dimostrato di nuovo la capacità di mettere in scena personaggi femminili dalla dolce odiosità, votati all’autodistruzione e incastrati nel loro tempo, come protagoniste di un romanzo russo di inizio novecento. Ma prima ancora c’era il film che, solo noi in Italia, odiamo più di ogni altro ovvero To Rome with Love, che tuttavia, guarda caso, contiene un segmento esilarante, quello con lo stesso Allen, e un altro bellissimo in cui Alec Baldwin viene trasportato dentro i suoi ricordi e li abita per qualche giorno assieme al se stesso giovane (Jesse Eisenberg) con un senso di nostalgia e rassegnata perdita che non si trovano altrove.

Se Midnight in Paris aveva messo daccordo molti proponendo un immaginario molto intellettuale che consentisse ad ognuno di avere una giustificazione morale per farselo piacere, il precedente Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni è forse l’unico film degli ultimi 5 anni davvero fuori forma, sconnesso e dalla narrazione claudicante. Eppure prima c’era stato Basta che funzioni, un Allen davvero d’altri tempi (la sceneggiatura era un inedito di decenni fa) caustico ed esilarante, per non dire del perfetto Vicky Cristina Barcelona, commissionato dalla Catalogna ma girato come un’opera personale. Questo era il primo dei film “sulle città” che Allen ha iniziato a realizzare una volta uscito da Manhattan.
Quello studio urbano che per decenni ha portato avanti su New York, in seguito l’ha applicato a Barcellona, Parigi e Roma. Si tratta dell’impossibile obiettivo di racchiudere una cosa ampia come una città intera nelle inquadrature, che per definizione sono ambienti stretti incapaci di mostrare tutto. Procedendo per sensazioni, sineddoche e suggestioni (è incredibile come in To Rome with Love abbia capito perfettamente, primo tra tutti quelli che abbiano girato a Roma, il colore della luce di questa città) Allen imbastisce storie per narrare ambienti, quando il cinema solitamente fa il contrario. Lo spirito di un luogo e della sua gente attraverso le immagini che vivono sullo sfondo.

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Tutto era in embrione con Londra dove ha girato tre film bellissimi e molto diversi. Il preferito di tutti Match Point (perché il più classico e rigoroso, il più hitchcockiano e teso, il semplice da vedere), il divertente e rutilante Scoop e l’incompreso Sogni e delitti che invece è dei tre il più raffinato. I due fratelli di McGregor e Farrell sono quasi identici (quando mai capita nei film che due attori che fanno i fratelli siano davvero truccati per somigliarsi e che davvero recitino per fare le stesse espressioni?), lavorano su sorrisi e capelli, imbastiscono una storia di spettri esteriori e interiori con una truce gravità che non risparmia nemmeno un finale spietato. C’è anche la scena della confessione con lo zio sotto la pioggia che va di diritto tra le migliori della sua filmografia, le più complete e ammalianti.
Andando ancora indietro, se proprio dovesse servire, ci sono due film più fiacchi che hanno causato il definitivo abbandono di Manhattan, ovvero Anything Else e Melina e Melinda, ma prima ancora c’era Hollywood Ending, uno dei migliori in assoluto, dei più concreti in cui ancora l’umorismo è usato per dire qualcosa (tendenza del primo Allen che oggi ha dismesso).

In attesa del prossimo coro di critiche all’uscita di Irrational Man, sono pronto a scommettere 100 euro oggi che alla sua morte sarà tutto sanato e di colpo ogni singolo film, anche quelli davvero discutibili (Commedia sexy in una notte di mezza estate, Celebrity…) saranno considerati capolavori intoccabili.

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