Resident Evil, il peso, l’importanza e la necessità delle Save Room
In vista di Resident Evil 7, una panoramica sui vari corsi della serie attraverso gli anni
Lorenzo Kobe Fazio gioca dai tempi del Master System. Scrive per importanti testate del settore da oltre una decina d'anni ed è co-autore del saggio "Teatro e Videogiochi. Dall'avatara agli avatar".
Tutto ciò che rendeva speciale il brand di Capcom, del resto, lo si poteva trovare, in nuce e in tracce minuscole, proprio tra quelle quattro mura. C’era la luce, spesso fioca, tesa a illuminare la macchina da scrivere, come a segnalare che salvarsi (in tutti i sensi) fosse possibile, per quanto difficile. C’erano i fondali pre-renderizzati, ricchi di dettagli, cataste di documenti, foto e scritte che raccontavano di un mondo ormai cancellato dagli schizzi di sangue e dalle interiora che testimoniavano l’irreversibile apocalisse. C’era il baule a contenere tutti i generi di item che ravvivavano e davano un senso al gameplay del gioco: le armi per difendersi; le erbe per recuperare vita; gli oggetti per risolvere gli enigmi.
[caption id="attachment_166986" align="aligncenter" width="600"] Difficile eleggere il proprio capitolo preferito, che non è per forza il migliore, se si è fan della saga. Forse quello più teneramente rimasto nei ricordi dei videogiocatori è proprio Resident Evil 2.[/caption]
Resident Evil. Il titolo, del resto, diceva tutto, riassumeva perfettamente il feeling, il concept, le reali intenzioni della saga. Sì, perché “l’ospite maligno” non andava tanto cercato negli zombie, portatori non sani del T-Virus, quando nell’anima stessa del videogiocatore, preda di un turbinio di emozioni spesso sfibranti, deprimenti, annichilenti. I vecchi capitoli della saga, quelli antecedenti a Resident Evil 4 per intenderci, si basavano sulla trasmissione e sviluppo di un’esponenziale stato d’ansia, acutizzato dalle ridotte capacità motorie dell’avatar e dallo scarso arsenale, che rendeva quasi mortificante e sconveniente la prospettiva di concedersi un’altra partita, l’ennesima discesa in quell’inferno devastato che rispondeva al nome di Raccoon City.
Impossibile negarlo: la produzione Capcom potrebbe essere l’araldo del moto, molto di moda ai giorni nostri, “mai una gioia”. La trama era avara di rivelazioni sconvolgenti, diluita tra documenti il cui reperimento era spesso facoltativo ed episodi successivi che costringevano il videogiocatore a rinfrescarsi la memoria su Wikipedia. I collezionabili si ottenevano rispettando condizioni spesso folli. Persino l’abbattimento del boss finale introduceva ad un epilogo dal retro gusto amaro e tutt’altro che consolatorio.
"Il Resident Evil, “l’ospite maligno” non andava tanto cercato negli zombie, portatori non sani del T-Virus, quando nell’anima stessa del videogiocatore, preda di un turbinio di emozioni spesso sfibranti, deprimenti, annichilenti. "Molta pena, poca gloria insomma, ma era comunque impossibile resistere al richiamo di un Resident Evil. Un paradosso fondamentalmente irrisolvibile, un mistero della fede solo parzialmente comprensibile analizzando il perfetto equilibrio del level design e lo splendore di un art design coraggiosissimo, coerente sino alle estreme conseguenze.
Avrebbe potuto durare per sempre, ma era giusto, prima o poi, giungere ad un punto di svolta. Se lo stupore (estetico ma non solo) per il mirabile remake del primissimo Resident Evil su Game Cube aveva rimandato l’inevitabile, fu con Resident Evil 0 che le fondamenta diedero un chiaro segno di cedimento. L’avventura di Rebecca Chambers e Billy Coen, almeno nella teoria, aveva tutte le carte in regola per essere un grande capitolo della serie. La grafica spacca mascella, due protagonisti carismatici, ambientazioni riuscitissime, l’ennesimo mistero su cui far luce, decine di nuovi mostri da abbattere e persino l’innovativa feature legata allo switch dell’avatar da controllare. Un titolo dagli ottimi valori produttivi, figlio di una tradizione ludica di colpo divenuta macchinosa, arretrata, superata.
Il cambiamento, come sappiamo, coinciderà anche con l’innescarsi della lenta parabola discendente della saga. Il paradosso nel paradosso, verrebbe da dire. Shinji Mikami prende la sua creatura, quella che certamente gli avrebbe permesso di vivere di rendita per altri tre episodi almeno, e la stravolge, la costringe ad evolversi, operando trasformazioni a tutti i livelli. La telecamera si stabilizza alle spalle del personaggio, l’arsenale si amplia, si controlla un avatar più atletico che mai, persino gli zombie, non sono più i classici zombie, ma si adeguano ad un potenziamento delle capacità motorie che è in corso anche al cinema, nelle serie TV, un po’ ovunque.
Cambia ovviamente il rapporto con le Save Room. Trovarle è sempre fondamentale, soprattutto dopo aver faticato nell’abbattimento di qualche boss, ma l’incremento del ritmo d’azione, la maggior sicurezza offerta da un protagonista “addirittura” capace di girarsi su sé stesso con relativa rapidità, la linearità pressoché infrangibile del level design, hanno reso le stanze del salvataggio un passaggio obbligato, un checkpoint come un altro, non un luogo in cui rintanarsi, rifugiarsi magari dopo un’esplorazione finita male.
L’evoluzione fu tale, inseguita praticamente da chiunque, che già Resident Evil 5 sembrò stantio, persino fuori luogo nel proporre scontri con orde e orde di non-morti, a volte addirittura armati di cannoni Gatling. Inutile accanirsi con Resident Evil 6, infine, in cui si tentò quasi l’impossibile, travasando ambientazioni, personaggi e archi narrativi in un contesto, quelli degli action senza compromessi, in cui è difficile credere di avere a che fare con la stessa saga.
Certo, varrebbe la pena chiedersi quale sia la libertà creativa concessa ad un team di sviluppo che si approccia ad un brand che, fino a quel momento, possiede canoni e stilemi estetici precisi. Di solito gli esperimenti si fanno con gli spin-off e, anche in questo senso, la saga spesso e volentieri ha osato (a volte troppo) con esponenti come Gun Survivor (onesto sparatutto su binari) e Operation Raccoon City (che fa tutt’ora tremare di ribrezzo anche il fan più entusiasta).
[caption id="attachment_166985" align="aligncenter" width="600"] Code Veronica è forse il punto più alto toccato dai vecchi capitoli di Resident Evil. Abbiamo apprezzato moltissimo anche Resident Evil 0, ma il capitolo originariamente pubblicato su Dreamcast ha effettivamente più fascino.[/caption]
Forse è il pubblico che, più o meno direttamente, decide quale sia il futuro di una saga. Così come Resident Evil 0 fu l’ultimo episodio di un corso, il sesto capitolo potrebbe aver segnato la fine della smania per l’azione pura.
Resident Evil 7, in uscita il prossimo 24 gennaio su PC, PlayStation 4 e Xbox One, potrebbe rappresentare qualcosa di completamente nuovo, ma estremamente debitore nei confronti delle origini dell’IP. Lo abbiamo constatato con mano durante il nostro hands-on della demo The Beginning Hour, muniti di PlayStation VR, in una velocità di spostamento del protagonista estremamente ridotta, nella scarsità di munizioni, in una tensione generata più da quello che non si vede, che non c’è, piuttosto che da orde di nemici da abbattere. La novità assoluta è rappresentata dalla visuale in prima persona, nuovo strumento, imprescindibile se si vuole gareggiare nel territorio della realtà virtuale, utile in ogni caso a restituire, in una forma tutta nuova, l’ansia scaturita dalla visuale statica, esattamente come accadeva con i vecchi Resident Evil.
Nonostante il fortunatissimo quarto capitolo, insomma, noi ci auguriamo che prossimamente torneremo a tirare un sospiro di sollievo nell’ascoltare il suono di una malinconica e delicata melodia, segnale inequivocabile di aver finalmente raggiunto una Save Room, oasi di pace, in un deserto di esseri terrificanti che non vedono l’ora di staccarci la testa dal collo. La speranza è tanta, di motivi per essere ottimisti ce ne sono molti. Vedremo a brevissimo se abbiamo fatto bene a ridare fiducia a Capcom, lo vedremo quando finalmente metteremo le mani su Resident Evil 7.