PlayStation VR provato da una non giocatrice
BadGames si dà agli esperimenti: abbiamo fatto provare PlayStation VR ad una ragazza totalmente inesperta di videogiochi
S. ha 31 anni, un dottorato in diritto dell’Unione Europea e l’unico videogioco che ha mai preso in mano fu DOOM nel 1993. In realtà S. non è sicura di aver giocato proprio al capolavoro di John Romero (oltre a non avere idea di chi sia John Romero) l’abbiamo dedotto noi perché con una sorta di epifania videoludica ha ricordato che per riuscire a vincere inseriva spesso il codice “idkfa”, marchio storico della saga id Software. Dalle creature infernali degli anni ‘90 a oggi S. ha un buco di circa vent’anni: non sa cosa siano Final Fantasy o Call of Duty e fatica a distinguere una PlayStation 4 dal decoder di Sky. S. però è curiosa e seppur con qualche sospetto ha accettato di indossare il casco e prendere in mano i due Playstation Move.
Nel test non abbiamo voluto andare troppo pesanti e ci siamo limitati a due giochi, anzi, due esperienze per usare un lessico che va di moda ora, entrambe contenute nel pacchetto VR Worlds: l’esplorazione dei fondali atlantici di Ocean Descent e il colpo ai danni della mafia russa, The London Heist. La prima è più simile a un cortometraggio che a un videogame vero e proprio mentre il secondo introduce, seppur in maniera basilare, alcune meccaniche ludiche non del tutto banali. Playstation VR ha una grande qualità: non servono configurazioni, una volta indossato il visore basta premere un paio di tasti sul pad e si è subito pronti, nessuna calibrazione, nessun movimento strambo, nessun inghippo. Finché si rimane nel campo visivo di PlayStation Camera tutto funziona in maniera quasi magica, pure quando S., dopo un incontro un po’ troppo ravvicinato con uno squalo, stava per cadere addosso a chi scrive.
"Pare di assistere alla stessa reazione che S. e le persone come lei ebbero nel 2006 quando Nintendo fece scoprire alle masse i motion controller: annullando la distanza fra giocatore e videogame PlayStation VR offre una proposta ludica coinvolgente quanto lo sono per noi titoli come Dishonored o Uncharted"[caption id="attachment_162245" align="aligncenter" width="600"] Esperimento #2[/caption]
Volendo tracciare un arco storico che parte con Wii e arriva fino a PlayStation VR, l’accoppiata casco e controller sensibili al movimento sembra risolvere il grande problema che il gaming si porta dietro da trent’anni, la dittatura del gamepad. Per chi, come S., non è cresciuto con le dita allenate da ore e ore davanti alle console un DualShock è un oggetto quasi impenetrabile, è difficile ricordare quale tasto fa cosa, è difficile coordinare il movimento dei due analogici, è difficile spostare in continuazione i pollici dai tasti alle leve, insomma, spesso la curva di apprendimento - pure per i giochi più semplici - non vale l’impegno necessario. La realtà virtuale ribalta questo assunto: rendendo molto più naturale il gesto del guardarsi attorno, e dunque l’interazione con l’ambiente circostante, permette anche a S. di concentrarsi sull’aspetto divertente del gaming ovvero il fingere di fare cose che nel mondo reale non potremmo mai sperimentare, come una rapina in banca o l’attacco di uno squalo.
Certo, si tratta di una tecnologia ancora acerba e piena di limiti ma la strada è quella corretta, se vogliamo salvarci dall’invasione dei minigiochi e del gaming mobile l’unico futuro possibile per il gaming tradizionale è allargare il suo pubblico di riferimento. Se fra un paio d’anni un eventuale The Witcher VR sarà interessante sia per chi scrive che per S. vorrà dire che la realtà virtuale è servita a qualcosa, che il paradigma è cambiato che, finalmente, anche i videogiochi saranno diventati un media maturo, non più una mera appendice di tecnologie sempre più sofisticate.
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