Emerald City 1x10, "No Place Like Home" [finale di stagione]: la recensione

Ecco la nostra recensione del decimo e ultimo episodio della prima stagione di Emerald City, intitolato No Place Like Home

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Spoiler Alert
No Place Like Home è il titolo dell'ultimo episodio della prima - e unica, probabilmente - stagione di Emerald City. Un titolo che ammicca a una delle frasi più iconiche pronunciate da Dorothy Gale ma che, ironicamente, non solo non è presente nella sceneggiatura di questa decima puntata, ma assume un significato ben lontano da quello che potremmo immaginare nel corso della storia. Se, infatti, decenni di immaginario letterario e cinematografico ci hanno portati a identificare la "casa" di Dorothy con il Kansas originario, la serie NBC indica per la giovane una direzione ben diversa, sottolineata senza possibilità di equivoco nell'epilogo di questa sua prima stagione.

Ma andiamo con ordine: come promesso dal penultimo episodio, No Place Like Home ci presenta lo scontro finale tra Dorothy, il Mago e Glinda, nonché la resa dei conti tra Tip/Ozma e gli spettri del suo sanguinoso, tragico passato. Per una volta, entrambe le linee narrative si rivelano all'altezza delle aspettative maturate nel corso della stagione, serbando per lo spettatore non pochi momenti ricchi di pathos. In primis, merita il nostro plauso la scena del faccia a faccia tra Tip ed Eamonn, assassino dei suoi genitori - i regnanti di Oz - per ordine del Mago. Il ragazzo risparmia la vita del soldato, imponendogli però una punizione forse persino più crudele della morte: la sua assoluta cancellazione dalla memoria della moglie e dei figli.

I dilemmi di Tip non si fermano, però, alla scelta tra magnanimità e impietosa giustizia: il suo nuovo ruolo di regnante gli impone, per essere riconosciuto come legittimo erede di Pastoria, di rinunciare alla sua vera natura e assumere la forma fisica femminile di Ozma. Sebbene racchiuso in un'unica inquadratura, il dissidio interiore del giovane è, ancora una volta, tra gli elementi di forza più credibili e convincenti nella costruzione psicologica dei protagonisti di Emerald City, e la sua storyline, intrecciata a quella di West, assurge definitivamente alla supremazia rispetto alle vicende degli altri personaggi raccontati dalla serie NBC.

La battaglia intrapresa da Dorothy conquista, a un passo dal finale, una coerenza e una verosimiglianza inedite, che fa rammaricare della mancanza di un lavoro più accurato sull'elaborazione delle motivazioni della protagonista. Tentando di mettere fine a una guerra di cui si sente, in parte, responsabile, la ragazza finisce per assistere alla morte di Sylvie - un momento di grande intensità, benché alleviato dalla conferma che solo una strega può uccidere una strega - e per rivoltarsi contro il Mago, cui va lo scettro nero per implacabilità e meschinità. La nostalgia di casa non è mai stato un motore particolarmente trainante per la Dorothy di Emerald City, ma la necessità di allontanare Frank da Oz sembra essere una ragione più che sufficiente per tentare di attivare il misterioso macchinario con cui scatenare un tornado che riporti lei e il Mago nel lontano Kansas. Come prevedibile, qualcosa va storto, e un colpo di scena arriva per Dorothy come per noi, benché lo spettatore abbia acquisito tale informazione con un certo anticipo rispetto alla ragazza: la madre della bella infermiera non è Karen Chapman, bensì Jane.

Il ristretto minutaggio del singolo episodio non ci concede di poter approfondire il legame madre-figlia, né di capire se Dorothy sia stata concepita a Oz o in Kansas, come inizialmente dichiarato da Frank, e quale sia quindi la home cui il titolo fa riferimento. La conclusione dell'episodio, con delle intelligenti ed efficaci strizzate d'occhio che fanno vacillare, per qualche minuto, le certezze del pubblico, portandolo a ipotizzare che le avventure vissute da Dorothy non siano altro che frutto della sua immaginazione, apre il campo a un ritorno a Oz che dovrebbe rispondere - nella remota ipotesi che la serie non venisse cancellata - a un discreto numero di domande.

Al di là dei dubbi lasciati insoluti, la serie diretta da Tarsem Singh può dirsi riuscita almeno nella costruzione di un'estetica specifica, che rielabora senza stuprare l'universo di Baum e garantisce, nei molti - forse troppi - rivoli della propria trama, una ricchezza drammatica non sempre coerente, ma di certo suggestiva e variegata. Resta il rimpianto per un progetto che avrebbe potuto dire la sua anche in termini di impatto emotivo e che resta, invece, poco più di un mero divertissement impreziosito da raffinate suggestioni visive. Sapremo presto se ciò sarà sufficiente a garantire un rinnovo, o se i troppi passi falsi verranno puniti con una cancellazione che lascerebbe l'amaro in bocca.

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