Sherlock 4x01, "Le Sei Thatcher": la recensione

Sherlock torna sugli schermi con un giallo sfilacciato e con un colpo di scena prevedibile, conservando tuttavia una solidità psicologica che trascende i difetti

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Spoiler Alert
Si può sfuggire al proprio destino? Quella che sembrava essere una delle domande centrali di Le Sei Thatcher, attesissimo esordio della quarta stagione di Sherlock, è in realtà il quesito che molti degli spettatori potrebbero porsi in merito alla sorte della serie targata BBC. Dopo un'attesa durata tre anni - e solo in parte lenita dal tutt'altro che memorabile speciale natalizio del 2015 - Sherlock torna sul piccolo schermo chiarendo sin da subito le proprie intenzioni; benché i creatori Steven Moffat e Mark Gatiss abbiano trascorso l'intervallo tra una stagione e l'altra rassicurando i fan sulle gravi conseguenze delle azioni dei protagonisti, l'assassinio di Charles Augustus Magnussen diviene poco più che aneddoto ridanciano nella prima scena dell'episodio, che mostra uno Sherlock (Benedict Cumberbatch) arrogante e strafottente, se possibile peggiorato a livello umano rispetto a quanto visto in passato.

L'ossessione per il mistero si traduce, per il consulente investigativo, in una dipendenza che, oltre a passare per i consueti canali della droga, coinvolge anche il telefonino, che l'uomo non smette di usare nemmeno durante il battesimo di Rosamund, figlia di John Watson (Martin Freeman) e Mary Morstan (Amanda Abbington). Quali sono, dunque, le conseguenze di cui Moffat e Gatiss parlano? Potrebbero forse coinvolgere Mary che, a dispetto del minuzioso lavoro di epurazione del proprio passato e di costruzione di una vita normale con John, torna a essere assediata da fantasmi di una vita criminale che non potrà mai davvero lasciarsi alle spalle. A lei, più che a Sherlock, sembra alludere la favola del mercante e della Morte - alla base, molti l'avranno riconosciuta, della splendida ballata di Roberto Vecchioni - che esemplifica l'impossibilità di sfuggire all'ultimo incontro con la nera signora. Tutto quadrerebbe, se non fosse per un finale in cui Mary, in una scena che risulta fin troppo prevedibile a scapito dell'intensità drammatica, perde la vita per frapporsi alla pallottola fatale tra Sherlock e il proprio antico datore di lavoro, alias la mite vecchina Vivian Norbury (Marcia Warren). E qui risiede uno dei molti paradossi della puntata: dopo essere scampata alla furia vendicativa dell'ex collega Ajay (Sacha Dhawan), Mary trova la morte non a causa del proprio passato, ma a causa dell'arroganza di Sherlock, che provoca Vivian fino a farle premere il grilletto.

Il tutto, va detto, in una delle scene più banalmente canoniche mai viste nella serie, con John che arriva giusto in tempo per raccogliere le ultime parole della moglie morente. Vale la pena, a questo punto, interrogarsi sull'effettivo ruolo di Mary Morstan all'interno della serie: se la terza - non sempre esaltante - stagione aveva avuto il merito di inserire un elemento normalizzante e in potenziale contrapposizione con lo squilibrio di Sherlock e John, l'evoluzione del personaggio in Le Sei Thatcher l'ha resa nulla più che una macchinosa e incoerente presenza atta solo a spingere il rapporto tra i due uomini in una direzione finora inesplorata: quella del conflitto. Il che è, a suo modo, una scelta non solo opinabile nei confronti di una figura femminile indipendente e intrigante, ma inconsistente a livello emotivo. Prescindendo dal ruolo di moglie, sottolineato quasi unicamente dalla nascita della figlia Rosamund, Mary è stata ridotta al ruolo di aiutante più furba del già rodato duo, in contrasto con la pretesa normalità sbandierata rispetto al proprio passato di sicario. Laddove l'attrazione per il pericolo è stata la costante di Sherlock e John per ben tre stagioni, era davvero necessario appiattire anche il carattere di Mary sulle medesime corde dei due protagonisti? La domanda si perde nelle luci azzurrine di un acquario fin troppo affollato.

Non è questo, purtroppo, l'unico difetto di un episodio che trae spunto dal racconto I Sei Napoleoni per diventare, via via, sempre meno coinvolgente sul fronte investigativo, relegando la storia di Conan Doyle a un ruolo collaterale rispetto alle ambizioni di un dramma sentimentale fagocitante. Nessuna colpa hanno gli interpreti, impeccabili come d'abitudine, e illuminati per l'ultima volta dalla presenza di Amanda Abbington, che fa uscire di scena Mary confermando la propria vertiginosa - e tuttora sottovalutata - statura attoriale.

Tuttavia, Le Sei Thatcher guadagna punti laddove riesce, forse neppure troppo consapevolmente, a riunire i propri protagonisti sotto l'ombrello di un unico tema portante, che non è quello conclamato della predestinazione, bensì quello della rottura del patto. L'Ultimo Giuramento, che aveva concluso la terza stagione, sembra a questo punto collocarsi come prologo ideale del discorso portato avanti in Le Sei Thatcher, che conquista una propria solida identità nella declinazione dell'infrangimento di molte promesse: si passa dal tradimento - presunto - di Mary nei confronti degli ex compagni di squadra, per arrivare all'adulterio - fantasticato o effettivo, poco importa - di John nei confronti di Mary, per trovare l'acme nell'involontario, ma evitabile, tradimento di Sherlock nei confronti di entrambi. Tre situazioni molto diverse, tre diversi modi di sopravvivere - o soccombere - ai propri errori.

Alla fine di Le Sei Thatcher, la distanza tra John e Sherlock sa di vuoto insapore e ha un che di incolmabile, con buona pace di chi ha visto in Mary Morstan l'ostacolo a un amore fastidiosamente insinuato fin troppo a lungo dagli autori; questa prima puntata sembra, finalmente, voler rinunciare a parte del fan service più becero, anche se questo porterà la serie a doversi confrontare con la domanda più spinosa tra tutte: quanto c'è di malsano nell'amicizia tra due individui che sembrano ormai avere nella condivisione del brivido l'unico punto di contatto? I prossimi episodi - nonché, probabilmente, gli ultimi della serie - portano sulle proprie spalle un peso sentimentale inedito che, siamo fiduciosi, sapranno risolvere in modo compiuto e coerente rispetto alla psicologia di due protagonisti che, a sei anni e mezzo dall'esordio di Sherlock, si stagliano ancora incontrastati nell'immaginario del pubblico, immuni agli scossoni e ai dislivelli qualitativi delle storie che attraversano.

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