Luke Cage (prima stagione): la recensione

Dopo Daredevil e Jessica Jones, arriva il terzo tassello del mosaico Marvel-Netflix: con Luke Cage arriva una storia di riscatto sociale, molto legata alle sue tematiche

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Luke Cage, come Daredevil e Jessica Jones prima di lui, suona il grande tema dei supereroi Marvel su una tonalità più bassa, meno enfatica, sapientemente studiata per incastrarsi con il resto della sinfonia. E questo è solo uno dei punti in comune con le altre serie che abbiamo già visto sulla piattaforma streaming, e che sempre più assumono i contorni di un universo all'interno di un universo.

Ogni serie del Marvel-Netflix Universe può essere infatti letta su tre livelli. Il primo è la sovrastruttura immensa, quasi cosmica potremmo dire, in cui la piccola storia di quartiere è calata. E non potrebbe essere altrimenti, dato che nel clima di sconfitta e degrado sociale che si respira ad Harlem l'armatura scintillante di Iron Man e gli altri souvenir della battaglia di New York possono trovare spazio solo su una bancarella, ancora una volta miraggio di un mondo magnifico ma lontano dalle possibilità della strada. Il secondo livello è quello costruito pezzo dopo pezzo su Netflix. I riferimenti, quando arrivano, sono tutti per Hell's Kitchen, ed è una scelta che funziona sia in chiave presente nel costruire uno stile più coerente, sia in chiave futura, con l'atteso progetto Defenders. E poi c'è il terzo livello, il più importante, quello che punta sul momento che stiamo vivendo, sulla storia che ci viene raccontata, rivestendola di tematiche e dignità, senza lasciare che l'hype per i progetti futuri oscuri il piacere del racconto del presente.

Chi è Luke Cage? Il tema dell'identità, quel desiderio di interrogarsi giorno dopo giorno sul proprio ruolo del mondo sembra essere un discorso imprescindibile quando si parla di superpoteri. Il guardiano di Harlem non fa eccezione, ma il suo è un percorso nettamente diverso rispetto a quello intrapreso dagli altri personaggi che abbiamo già visto. Matt Murdock vive proiettato nella sua missione di giustiziere, quindi verso il futuro, ed è così che l'abbiamo conosciuto; Jessica Jones vive nel trauma subito e nelle paure mai superate, quindi nel passato. Luke Cage è un eroe in divenire, nonostante il suo rifiuto a definirsi così. Il suo è il cammino di origini più classico, ma con una differenza fondamentale: Luke Cage non diventa un supereroe nel momento in cui acquista i poteri, ma nel momento in cui decide come utilizzarli.

Non ci si può lasciare alle spalle la lezione di Spiderman e la famosa citazione sulle responsabilità nel momento si va a raccontare questa storia di caduta, paura e rinascita. Qui Carl Lucas – questo il suo vero nome – deve vincere la più classica delle battaglie contro se stesso, contro la sua paura di non essere all'altezza del ruolo, di non poter diventare quel modello di riscatto che gli afroamericani vorrebbero che fosse. Sulla sua strada, come anticipavamo, troverà delle nemesi, come il criminale Cottonmouth (Mahershala Ali) e sua cugina Mariah Dillard (Alfre Woodard), ma anche il pericoloso Willis Stryker (Erik LaRay Harvey), detto Diamondback, che sarà molto importante nella seconda parte di stagione. Tutte queste figure in qualche modo colpiscono Luke (Mike Colter) su due fronti. Il primo, più diretto e brutale, e un secondo, più subdolo, che mette in crisi le sue poche certezze.

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Per fortuna esistono anche degli alleati, che di volta in volta assumono il ruolo di guida e coscienza del protagonista. Sarà fondamentale Pop (Frankie Faison), barbiere e amico di Luke, ma anche la detective Misty Knight (Simone Missick) e l'immancabile infermiera Claire Temple, con Rosario Dawson che si conferma per la terza volta l'elemento unificante in questo scenario metropolitano. In un racconto così fortemente legato alle sue tematiche, avviene ciò che avevamo già sperimentato con Jessica Jones. Ogni personaggio non rappresenta solo se stesso, ma diviene quasi un'estensione del contesto nel quale la storia e il suo protagonista sono calati. Ed è qui che ci ricolleghiamo al terzo livello di lettura che dicevamo sopra.

Jessica Jones poneva al centro una questione femminile, e non lo faceva solo in un'ottica di opposizione con l'universo maschile, ma costruendo anche delle "donne che odiano le donne". Luke Cage pone una questione sociale, costruendo un campione della propria gente, non solo in opposizione al "white power", ma – ancora una volta in modo molto intelligente – costruendo un'opposizione trasversale, che attraversa società ed etnie diverse. Sarebbe stato semplice giocare sull'attualità e su banali dicotomie tra bianchi e neri, tra poliziotti cattivi e cittadini buoni, ma lo showrunner Cheo Hodari Coker (è di colore, casomai interessasse) in ogni momento decisivo prende la decisione giusta, sorprendendoci. Saranno due agenti di colore, in due diversi momenti, a usare violenza in centrale contro due testimoni, sarà la minoranza stessa ad isolarsi e ad affidarsi a falsi salvatori.

A questo proposito, potremmo anche analizzare l'idea messianica con cui ci viene raccontato Luke Cage nei tredici episodi, ma vorrebbe dire caricare troppo di simbolismi una serie che funziona anche molto superficialmente. Il racconto è appassionante e non deluderà quanti hanno apprezzato le altre serie Marvel-Netflix, con cui ha molto in comune. Come sempre si ragiona sull'intera stagione e non sul singolo episodio, che può essere occupato interamente da un flashback o da uno scenario di tensione che viene prolungato secondo ritmi che sono estranei tanto al cinema quanto alla televisione classica. Qualche eccesso nella costruzione dei villain (siamo molto lontani dal fascino di Kingpin e Kilgrave) viene compensato dalla figura di Hernan Alvarez (Theo Rossi), personaggio sfuggente e molto interessante.

Dopo le tre stagioni già viste su Netflix, Luke Cage è la storia più classica finora raccontata sulla piattaforma. Non all'interno del genere di supereroi, in cui mantiene un'anima peculiare, forse mai affrontata prima nel tratteggiare un eroe che diventa simbolo del riscatto sociale. Ma in una cornice più ampia, quella del classico percorso dell'eroe che si allontana, tiene la testa bassa, rifiuta le proprie responsabilità, bloccato nell'indecisione tra l'agire e il rimanere inerte e poi, infine, allunga la mano e afferra il proprio destino. È in queste svolte così collaudate, ma celate dal racconto, che si nasconde la riuscita di una storia che proprio per la sua universalità può essere godibile da chiunque e non solo da chi si ritrova nelle sue tematiche.

Riflessioni sparse:

  • Confermiamo le buone impressioni su Mike Colter. L'impressione è che avrebbe funzionato anche senza essere stato introdotto precedentemente in Jessica Jones. Tiene sulle spalle la serie per 13 episodi, e non è poco.

  • Grande spazio alle musiche. Dai titoli degli episodi che sono titoli di canzoni dei Gang Starr alle performance all'Harlem's Paradise, al pezzo rap su Luke Cage, forse la scena più memorabile della stagione.

  • Luke Cage, da stereotipo della blaxploitation a campione del riscatto sociale, non male. Viene da chiedersi se il prossimo Black Panther tratterà su scala più grande tematiche simili.

  • Si tratta del secondo personaggio interpretato da Alfre Woodard nel Marvel Universe dopo la sua apparizione in Civil War.

  • Serie dopo serie (non solo quelle Marvel) Netflix sta cambiando il modo di costruire il racconto televisivo. Come non ha senso giudicare un film dopo venti minuti, così non si può più inquadrare una serie dopo un episodio, perché tutto lavora nel lungo termine.

  • L'appuntamento con il Marvel-Netflix Universe è al 2017 con Iron Fist.

  • Sweet Christmas!

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