Horace and Pete: la recensione

Horace and Pete, il progetto web curato da Louis C.K., è una delle opere più difficili da inquadrare degli ultimi anni

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Horace and Pete è una delle opere stilisticamente e concettualmente più indefinibili uscite negli ultimi anni. Un comedian tra i più dotati e apprezzati come Louis C.K. traspone sul web l'uso di mezzi che ha approfondito in televisione sfruttandoli per un progetto dalla cornice evidentemente teatrale. Questa è la storia dietro la storia narrata dalla serie nei suoi dieci episodi, pubblicati a sorpresa sul sito del comico a partire dallo scorso gennaio con una conclusione, altrettanto improvvisa e definitiva, giunta all'inizio di aprile. Un progetto difficile tanto da definire quanto da assorbire, che corteggia più categorie senza ricadere mai precisamente in nessuna di esse, sperimentazione all'interno della tradizione, senza dubbio interessante e carica di spunti.

L'ambientazione corrisponde per la maggior parte del tempo all'ampio bar, gestito per circa un secolo dalla stessa famiglia, da cui prende il nome la serie. Rarissime incursioni all'esterno del palazzo, mentre saranno più frequenti i momenti all'appartamento al piano di sopra, condiviso dai due gestori. Si tratta di due cugini, ultimi e non più giovani esponenti della lunga stirpe degli "Horace and Pete" che di generazione in generazione hanno condiviso sia il nome che la gestione del locale. L'ultimo Horace (Louis C.K.) e l'ultimo Pete (Steve Buscemi) non sono però troppo entusiasti dell'incarico, divisi tra problemi di famiglia, con il primo che non riesce a parlare alla figlia, e di salute, con il secondo costretto ad assumere farmaci per controllare un disturbo. Completano il desolante quadro Pete senior (Alan Alda), Sylvia (Edie Falco), sorella maggiore di Horace, e alcuni clienti abituali tra i quali spicca Marsha (Jessica Lange). Grandissimo lavoro da parte del cast.

Si respira legno antico e desolante quotidianità in ogni minuto della visione. L'irrealistico approccio allo scenario da sitcom multicamera scoperchia il velo su un palcoscenico più teatrale e realistico che mai, che vive di silenzi dilatati, pause imbarazzate e miserie umane. Il gioco della scrittura che sfrutta il gioco delle aspettative di chi, contando sull'ambientazione tipicamente comedy (Cin Cin, Happy Days) e sul nome dietro alla produzione, regia e sceneggiatura (che in questi anni si è fatto le ossa con Louie) si aspetta satira, battute, eccessi esilaranti. Invece la risata, se e quando arriva, è uno sfogo liberatorio, quasi isterico, al quale sentiamo di voler cedere e di voler innescare quasi artificialmente, perché l'idea che si inneschi qualcos'altro è troppo tremenda da considerare, e perché tutto continui nella sua rigida, falsamente pacata routine.

Non è dramedy, non è satira, non è il cinismo sferzante alleniano, ed è molto più semplice definire Horace and Pete in negativo piuttosto che evidenziare ciò che effettivamente è. Lo stesso Louis C.K., che per la parte del vecchio Pete aveva considerato in un primo momento Joe Pesci, decide di sfuggire a qualunque didascalismo, a qualunque lettura immediata o comunque definitiva per la sua opera. Le categorie sono rassicuranti, la vita vera non lo è mai. Le vuote chiacchiere al bar tra i clienti che parlano del tutto e del niente, l'ostentato razzismo del vecchio Pete, la distanza incolmabile tra personaggi che si muovono fianco a fianco tutto il giorno senza conoscersi davvero: questo è Horace and Pete. Questo e la ferrea crudeltà nel porre problematiche che non devono e non possono trovare risoluzione. Una scelta che non deriva dal voler giocare su una facile empatia con i personaggi (che generalmente troveremo antipatici, troppo passivi, spesso cattivi), ma sempre da un rifiuto quasi consapevole di qualsiasi conciliazione con lo spettatore.

Approccio teatrale dunque, con tanto di intermezzo – il tema della serie è stato curato da Paul Simon – e chiusura degli atti. Una scelta che sembrerebbe vincolare troppo la serie, ma sulla quale Louis C.K. gioca e si diverte a sperimentare, come nel terzo episodio, interamente costruito su un'unica conversazione di quaranta minuti, o nel sesto, dove le scene raddoppiano e raccontano due cene speculari. In ogni caso rimane una visione che ingabbia i protagonisti, che salvo rarissimi momenti – peraltro mai solari – non concede loro alcuna via d'uscita da un'ambientazione che li definisce e che li ha quasi definiti prima della loro nascita (il tema del retaggio, della memoria, gli strappi dai risvolti tragici che accompagnano il desiderio sempre più forte di lasciare il locale). L'unico slancio similtelevisivo consiste nell'illusione dell'intimità nel momento in cui, lavorando sempre sulla profondità dell'immagine, l'autore stringe su uno scambio tra due personaggi, isolando quel rumore da tutto il resto. Ma è davvero poco per dare respiro a una visione che rimane desolante e amarissima.

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