Making a Murderer: la recensione
L'imponente documentario di Netflix ricostruisce la contorta odissea giudiziaria di Steven Avery: un attacco al sistema giudiziario
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È la storia di Steven Avery, condannato nel 1985 con l'accusa di violenza sessuale. Dopo diciotto anni di carcere, la sua innocenza è completamente provata e l'uomo viene rilasciato. Sulla sua ingiusta incarcerazione pesano il lassismo, l'imprecisione, forse l'accanimento delle forze dell'ordine locali. Nel 2005, mentre va avanti la pratica per ottenere un risarcimento per i danni subiti, Avery si trova ancora una volta al centro di un processo, stavolta per omicidio. Le prove contro di lui, compresa la testimonianza del nipote, sembrano schiaccianti, ma la difesa decide di seguire una strategia molto particolare, sostenendo con forza l'idea che qualcuno abbia incastrato Avery per ripicca o per evitare di sostenere le spese del risarcimento. Nel corso del processo verranno fuori molti punti oscuri e una gestione non trasparente delle fasi preliminari.
In vari momenti nel corso della visione ci troveremo a odiare funzionari, rappresentanti dei media, testimoni. La rabbia è il collante di questa vicenda kafkiana, nella quale Avery interpreterebbe suo malgrado un moderno Josef K., stritolato tra le maglie del sistema, ed è un sentimento che ci arriva puro e intatto, veicolato dallo sbigottimento del protagonista, dalle lacrime dell'anziana madre, dagli accorati appelli della difesa. Ma il condizionale è d'obbligo. Al di là dell'esito della vicenda, è impossibile capire davvero se Avery sia innocente o colpevole. Certo, il documentario ha una sua posizione ben precisa, che è quella della difesa, e giustamente lavora per coinvincerci in questo senso.
In ogni caso, se la giustizia deve perseguire la verità, l'arte di qualunque tipo – quindi anche quella cinematografico-televisiva – deve essere libera. Non fosse altro per il grande lavoro sul progetto, e per conoscere questa storia stranger than fiction, rimane una visione assolutamente consigliata.