Making a Murderer: la recensione

L'imponente documentario di Netflix ricostruisce la contorta odissea giudiziaria di Steven Avery: un attacco al sistema giudiziario

Dal 2017 sono Web Content Specialist l'area TV del network BAD. Qui sotto trovi i miei contatti social e tutti i miei contenuti per il sito: articoli, recensioni e speciali.


Condividi
La dicitura "basato su una storia vera" è tanto familiare quanto sfuggente. E Fargo, che inizia ogni episodio mostrandoci questa scritta (anche se ciò che racconta è completamente inventato), l'ha capito perfettamente. Cos'è in fondo la verità? Ogni trasposizione, e ogni forma di racconto, si basa su una serie di presunzioni. Dobbiamo credere che il narratore sia sincero, dobbiamo essere pronti a prendere per buono ciò che ci dirà, dobbiamo essere diffidenti, ma fino a un certo punto, perché senza fiducia non si va da nessuna parte. E la giustizia non funziona in modo troppo diverso. Tutto questo per dire che Making a Murderer – opera in dieci episodi su Netflix – è un documentario a tesi. È la visione parziale, quella delle autrici, di una visione parziale, quella dei protagonisti della storia. Certamente un'opera ambiziosa (siamo però a livelli inferiori rispetto a The Jinx), ma che nasconde in secondo piano quello che è il suo vero cuore.

È la storia di Steven Avery, condannato nel 1985 con l'accusa di violenza sessuale. Dopo diciotto anni di carcere, la sua innocenza è completamente provata e l'uomo viene rilasciato. Sulla sua ingiusta incarcerazione pesano il lassismo, l'imprecisione, forse l'accanimento delle forze dell'ordine locali. Nel 2005, mentre va avanti la pratica per ottenere un risarcimento per i danni subiti, Avery si trova ancora una volta al centro di un processo, stavolta per omicidio. Le prove contro di lui, compresa la testimonianza del nipote, sembrano schiaccianti, ma la difesa decide di seguire una strategia molto particolare, sostenendo con forza l'idea che qualcuno abbia incastrato Avery per ripicca o per evitare di sostenere le spese del risarcimento. Nel corso del processo verranno fuori molti punti oscuri e una gestione non trasparente delle fasi preliminari.

L'affaire Avery scuote qualcosa nella coscienza di ogni spettatore, andando a colpire uno dei pilastri di ogni società democratica: la fiducia nel sistema giudiziario. Che sappiamo che è composto da uomini che possono fallire, o essere incompetenti, o poco obiettivi, ma nel quale comunque dobbiamo credere perché è ciò che si avvicina maggiormente alla garanzia di un ideale di giustizia. L'imponente labor limae in fase di montaggio delle due giovani documentariste Laura Ricciardi e Moira Demos, che hanno lavorato al progetto per ben dieci anni, ci consegna da questo punto di vista un lavoro appassionato e appassionante, ricco di dettagli e personaggi, capace di imporsi e coinvolgerci.

In vari momenti nel corso della visione ci troveremo a odiare funzionari, rappresentanti dei media, testimoni. La rabbia è il collante di questa vicenda kafkiana, nella quale Avery interpreterebbe suo malgrado un moderno Josef K., stritolato tra le maglie del sistema, ed è un sentimento che ci arriva puro e intatto, veicolato dallo sbigottimento del protagonista, dalle lacrime dell'anziana madre, dagli accorati appelli della difesa. Ma il condizionale è d'obbligo. Al di là dell'esito della vicenda, è impossibile capire davvero se Avery sia innocente o colpevole. Certo, il documentario ha una sua posizione ben precisa, che è quella della difesa, e giustamente lavora per coinvincerci in questo senso.

Per chi volesse conoscere meglio la vicenda, anche al di là dei fatti presentati nel documentario, le dichiarazioni e gli approfondimenti in rete non mancano. La pubblica accusa ha sostenuto che il prodotto abbia tralasciato alcuni importanti aspetti emersi durante le indagini, la famiglia della vittima ha criticato fortemente la visione parziale della storia, e negli ultimi giorni una ex fidanzata di Avery avrebbe ritrattato le proprie dichiarazioni, precedentemente favorevoli verso l'accusato. Dall'altra parte della barricata non va molto meglio: l'immediata spettacolarizzazione dell'accaduto avrebbe compromesso la presunzione d'innocenza dell'uomo, la testimonianza del nipote è piena di contraddizioni, il dibattito sulle prove è infinito e contorto.

In ogni caso, se la giustizia deve perseguire la verità, l'arte di qualunque tipo – quindi anche quella cinematografico-televisiva – deve essere libera. Non fosse altro per il grande lavoro sul progetto, e per conoscere questa storia stranger than fiction, rimane una visione assolutamente consigliata.

Continua a leggere su BadTaste