The Man in the High Castle (prima stagione): la recensione

La Germania ha vinto la Seconda Guerra Mondiale: gli alternativi anni '60 in The Man in the High Castle, la serie di Amazon dal romanzo di Philip K. Dick

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Tutta la Storia è un unico uomo immortale che costantemente apprende ("Valis", Philip K. Dick)

Belle parole, ma cosa succede se la Storia non è più quella che ricordiamo noi? Cosa succede se, arrivati ad uno dei crocevia più importanti – se non il più importante – attraversati dall'umanità, qualcosa non è andato come avrebbe dovuto? Questa è la premessa terribilmente affascinante sulla base della quale nel 1962 lo scrittore di Ubik e Ma gli androidi sognano pecore elettriche? costruiva una delle sue opere più originali e conosciute. Nel corso della prima stagione di The Man in the High Castle l'attesa serie di Amazon non risponderà a quelle domande, si limiterà a scalfire la superficie dei quesiti, a giocare con i sottili fili degli eventi storici facendo attenzione a non spezzarli. Risultato è un prodotto difficile da inquadrare in un determinato genere, senz'altro imperfetto, ma anche gratificante per lo spettatore e degno di una visione.

Siamo in un contesto ucronico anni '60 in cui la Germania e il Giappone hanno vinto la Seconda Guerra Mondiale. Non più gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica a spartirsi un mondo sull'orlo di un nuovo conflitto, ma altre due superpotenze, che hanno occupato il suolo americano imponendo una dittatura non solo militare, ma anche culturale. Sullo sfondo di questo scenario da incubo si intrecciano le vicende di una serie di personaggi dalle più disparate origini e con gli obiettivi più diversi che si possano immaginare. Semplici vittime dell'occupazione, esponenti della gerarchia militare, diplomatici, membri della resistenza, tutti loro sottomessi ad un potere più grande, quello della Storia che si fa e disfa di fronte ai loro occhi.

Per Philip K. Dick la scrittura di La svastica sul sole rappresentava una variazione-provocazione sul suo presente, quello degli anni '60 ancora molto vicini temporalmente alla guerra. Per noi è già qualcosa di molto lontano nel tempo, e non è poco, perché a tutti i generi nei quali potrebbe rientrare The Man in the High Castle ne aggiunge un altro, quello del period drama. Certo, è un period drama atipico, trattandosi di una timeline alternativa, ma è comunque un attributo presente e importante. Soprattutto perché stringe lo stile su un approccio volutamente datato, molto marcato, fatto di colori spenti, di una fotografia scura. Ma la serie non è solo questo: è fantascienza, che però si esaurisce nelle premesse, è un thriller, mai veramente compiuto dati i bruschi cali di tensione e le altre interferenze nella vicenda, è una spy story, e forse questa è una delle anime più forti, e naturalmente è fantapolitica, con le difficili relazioni tra Germania e Giappone.

Infine, è qualcosa di più. La serie di filmati della "cavalletta" che raccontano con materiale di repertorio la nostra versione della Seconda Guerra Mondiale sono il filo rosso che spinge in avanti la vicenda. Da un lato l'idea di far diventare il libro del romanzo originale una serie di filmati è molto azzeccata, dall'altro sottopone la coerenza del tutto, già parecchio traballante con tutti questi generi da tenere a freno, ad un ulteriore sforzo.

Verrà ripagato questo sforzo? L'idea di un universo alternativo in cui la verità storica – la nostra verità – ha una forza talmente dirompente da imporsi in un universo finto è bellissima, quasi poetica, e ha un valore simbolico che non può essere sottovalutato. Ma finora è anche un classico MacGuffin, uno strumento narrativo puro e semplice che verrà indagato fino a un certo punto, ma che non offre risposte concrete e questo, per motivi che spieghiamo immediatamente, può essere un problema.

High Castle - Amazon - banner

Il romanzo di Philip K. Dick non punta molto sull'intreccio. Sì, è una storia corale, ma tutto serve solo ad alimentare questa grande provocazione letteraria, a dare un affresco generale del mondo, a ribaltare con una certa ironia e con un punto di vista diverso le contraddizioni dell'Occidente. È molto simbolico, e non deve ricondurre tutto ad una logica. La serie, e non poteva fare altrimenti, punta invece molto sull'intreccio, sulle relazioni tra i personaggi, mette lo scenario sullo sfondo e lascia interagire i suoi caratteri raccontandone motivazioni ed emozioni. I simboli a questo punto vengono un po' meno (e quando ci sono si riferiscono a qualcos'altro, come un origami che omaggia Blade Runner), e una svolta come quella della "cavalletta" non può essere liquidata come licenza letteraria, bisogna darle un senso. La serie risponde non rispondendo: appunto, un MacGuffin, in attesa di una seconda stagione che dovrà arrivare per forza.

Nel corso dei dieci episodi la serie non riesce a mantenere sempre viva l'attenzione. Quando lo fa, si rifugia soprattutto in quelli che ad un primo sguardo avremmo potuto liquidare come personaggi di contorno, e invece si rivelano essere i più interessanti e complessi. Spiccano in particolare il ministro giapponese Tagomi (Cary-Hiroyuki Tagawa), con la sua ossessione per l'I Ching, e l'ufficiale tedesco John Smith (Rufus Sewell), che in un primo momento appare come il classico nazista senz'anima e invece si rivela un personaggio difficile da inquadrare. Stesso discorso per l'ispettore Kido (Joel de la Fuente), incaricato di scoprire il responsabile di un gravissimo atto, e Rudolph Wegener (Carsten Norgaard), militare legato da un segreto accordo con Tagomi.

Soffre il trio di protagonisti (personaggi meno interessanti della serie), Juliana, Joe e Frank (Alexa Davalos, Luke Kleintank e Rupert Evans), soffre il sistema di interazioni che li spinge di volta in volta ad avvicinarsi e allontanarsi, in tutti i sensi. Qui The Man in the High Castle paga la necessità di intervenire pesantemente sulla storia originale. Ci sono bruschi spostamenti e altrettanto rapide ritirate, ci sono coincidenze eccessive, ci sono false partenze bloccate quando la serie si rende conto di dover tirare avanti ancora per un po' e decisioni non sempre comprensibili, oltre ad alcune sottotrame (queste sì prese dal libro, come quella dell'antiquario) che potevano essere evitate.

Amazon Studios si è assunto la sfida più difficile della sua breve storia nell'affrontare questa trasposizione, e nonostante alcuni difetti la scommessa è vinta. C'è una visione ben definita e coerente, alcuni ottimi personaggi, grandi setting che vengono a patti con le più ristrette possibilità del piccolo schermo, una storia che dopo 50 anni mantiene ancora inalterato il suo fascino, addirittura un'enorme provocazione nell'ultimo episodio che rischia tantissimo e non delude.

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