Game of Thrones 5x09 "The Dance of Dragons": la recensione

Ad un passo dal finale di stagione, i protagonisti di Game of Thrones si trovano di fronte a delle scelte difficili

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Spoiler Alert

The shadows come to stay... (Shireen in Kissed by Fire)

Un'armata di gelidi esseri immortali nati per succhiare via la vita stessa dal mondo non regge il paragone con l'orrore del momento culminante di The Dance of Dragons. Ad una visione più fatalista potrebbe sembrare che nel mondo di Westeros non ci sia possibilità di salvezza, che tutto si riduca ad una lenta morte dello spirito prima che del corpo, che tutta l'innocenza e la bellezza debbano essere strappate con forza fra grida e pianti, perché non c'è posto per loro. Ma questo vorrebbe dire scagionare completamente i personaggi di Game of Thrones e riversare tutta la responsabilità sui capricci delle divinità che governano questa terra, siano esse i Sette Dei o R'hllor o lo stesso George Martin. Questo non è giusto, e ce lo dicono, in un dialogo immediatamente seguente alla scena straziante all'accampamento di Stannis, Tyrion e Hizdar, in un confronto sulla legittimazione del potere.

Solo alcune puntate fa Daenerys rispondeva a Daario che le chiedeva di riunire e massacrare tutti i padroni affermando "I'm a queen, not a butcher". Forse avrà agito bene, forse no, ma il punto è la possibilità di scegliere e di farlo secondo la propria coscienza e le proprie convinzioni, con la consapevolezza che ogni bivio in Game of Thrones proietta in avanti un'ombra che condiziona inesorabilmente il cammino futuro. La moltitudine di questo universo similmedievale appare inevitabilmente schiacciata dalle decisioni di qualcun'altro, ma questa non è la loro storia. Noi seguiamo il cammino di eroi, antieroi, personaggi dotati di un carisma che, nel bene e nel male, permette loro di tracciare il loro percorso e di convivere con il peso delle loro decisioni. Ned Stark è stato ucciso per questo, Robb Stark è stato tradito per questo, e lo stesso Oberyn con il senno di poi non ha fatto altro che proiettare in avanti il fantasma della propria morte.

In Game of Thrones ogni personaggio è responsabile per sé, e Stannis non fa eccezione. Come commentavamo alcune settimane fa, la scelta imposta da Melisandre tra la probabile disfatta e la vita di Shireen intrappolavano il personaggio in un vicolo cieco: da un lato la distruzione e la morte, dall'altro la perdita di qualunque umanità. Stannis ha scelto quest'ultima strada. Forse vincerà contro Bolton, forse no, ma a questo punto non conta più. È un personaggio completamente perduto sotto ogni punto di vista, per lui non c'è nulla ad attenderlo oltre la tormenta di neve, solo sensi di colpa e dolore. La morte di Shireen è uno dei momenti più strazianti mai mostrati in Game of Thrones, è il disperato epilogo di una piccola vita che finisce per essere solo un'estensione di quella più ingombrante del padre.

Il voltafaccia di Stannis rispetto a quell'adorabile abbraccio scambiato solo poche puntate fa con la bambina non convince del tutto. Ancora una volta, come in occasione dello stupro di Sansa e annesse torture psicologiche, Benioff e Weiss camminano tra il pietismo e lo shock gratuito, aggrappandosi agli stilemi classici della saga, quei turning point e quelle morti inattese che, in mancanza di un supporto cartaceo (la saga ormai è lontana), mancano di linearità e sembrano spingere i personaggi piuttosto che accompagnarli verso l'uscita. Non siamo comunque al livello della scena che – per motivi sbagliati – aveva suscitato le critiche di molti in Unbowed, Unbent, Unbroken. Per due motivi. Il primo è che Stannis con il suo rigore quasi inquietante è sempre stato uno dei personaggi più tragici della storia, e qui si trova ad rievocare – non sappiamo se voluto o meno dagli autori – il mitologico sacrificio di Ifigenia da parte del padre Agamennone. Il secondo è che le urla di Shireen ce le porteremo nelle orecchie per molto tempo: questo è un punto di non ritorno per almeno tre personaggi principali (come reagirà Davos?) e per l'intera guerra del Nord.

È una scelta già compiuta quella di Jon, che inimicandosi praticamente tutti i confratelli ha deciso di dare asilo ai Bruti. Nulla da rilevare tranne lo sguardo minaccioso di Olly e il nasone adorabile di Wun Wun, ormai nei nostri cuori da quando l'abbiamo visto scrollarsi di dosso non-morti come se fossero mosche. È una scelta da compiere quella di Arya, che a Braavos sembra perdere in un colpo tutto l'addestramento ricevuto nel momento in cui si trova di fronte ad uno dei nomi dell'odio, ser Meryn Trant. Recupererà la spada nascosta e lo ucciderà nel modo in cui la scrittura ci lascia palesemente intendere, oppure rinuncerà alla sua vendetta per esercitarsi a non essere nessuno?

Buona per Meereen. È sicuramente il climax meno forte a cui le classiche "puntate nove" ci hanno abituato, e non regge mai il confronto con la battaglia di Hardhome. Ma anche in questo caso va dato atto alla serie di aver costruito un punto di non ritorno per la vicenda di Daenerys a Essos, e di averlo fatto con tempismo e apprezzati tagli rispetto al materiale cartaceo. Non è una scelta molto felice riproporre a sorpresa Jorah di fronte alla regina in un'arena da combattimento dopo appena due episodi, né convince la gestione degli Immacolati (ottomila soldati ridotti a quattro nel momento cruciale). Eppure il piacere di vedere insieme Tyrion e Daenerys non accenna a calare, la riconciliazione con Jorah è un piccolo momento di giustizia, l'entrata in scenda di Drogon è spettacolare, e ci lascia con un climax sospeso, aperto a scenari tutti da scoprire.

E, nonostante tutto, il rumore dell'arena bruciata dalle fiamme del drago potrebbe esservi giunto attutito dalle grida di una bambina.

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