Aquarius: la recensione della doppia première
La recensione della serie evento della NBC sulle indagini contro la setta di Charles Manson negli anni '60
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Aquarius è un poliziesco che racconta l'indagine condotta dai due agenti di polizia Sam Hodiak (David Duchovny) e Brian Shafe (Grey Damon) in cerca di una giovane di nome Emma (Emma Dumont) che, a quanto pare, sarebbe stata rapita. Ma è anche la cronaca romanzata dei terribili atti criminosi commessi da Charles Manson e dalla sua "famiglia" sul finire degli anni '60. Ma è anche la fotografia di un periodo storico turbolento e conflittuale, fatto di agitazioni sociali, rivolte e mille contraddizioni. Infine ha un'anima procedurale appena accennata nel secondo dei due episodi andati in onda (intitolati Everybody's Been Burned e The Hunter Gets Captured by the Game), ma che potrebbe trovare conferma in futuro con nuovi case-of-the-week. La serie ideata da John McNamara ha l'ambizione di tendere alle stelle, ma non abbastanza forza per raggiungerle.
Risultato è che le numerose componenti della trama finiscono per ingolfarsi l'un l'altra, soffocando la forza di una storia che potrebbe alimentarsi tranquillamente della sola inquietudine che il nome Manson produce, e che invece si disperde in molti rivoli narrativi. In ogni caso il pluriomicida interpretato da Gethin Anthony (Renly in Game of Thrones) è senza dubbio, ma non senza sorpresa, il protagonista di questi due episodi. Non certo Emma, la giovane traviata e corrotta dall'uomo, e la cui scomparsa mette in moto la vicenda, né i due poliziotti che indagano. Scopriremo qualcosa su entrambi, almeno un evento di conflitto o particolarità legato alla loro famiglia, un fatto che dovrebbe qualificarli per il semplice fatto di esserci, e invece sa più di scusa per la difficoltà di costruire forti caratterizzazioni o un vero rapporto tra i due. Il giovane e il vecchio, quello più accalorato e quello più freddo, quello più motivato e quello più distaccato: niente di nuovo da questo punto di vista.Gethin Anthony quindi, che interpreta un personaggio che suscita il giusto disgusto e indignazione che ci si aspetterebbe, ma che al momento non emana quel carisma che in effetti gli avrebbe permesso di compiere i terribili fatti per cui è noto oggi. Forse la figura di Manson è troppo iconica, troppo ingombrante, in qualche modo triste e distorto talmente influente da aver condizionato un numero enorme di personaggi di finzione (ultimo fra i tanti il Joe Carroll di The Following). È difficile approcciarsi ad un materiale di questo tipo, facendo gli equilibristi tra realtà e finzione, e né per interprete né per altri valori le persone coinvolte sembrano all'altezza del compito. Ecco quindi che la scrittura fa un passo indietro e, collegando il discorso sul caso della settimana e quello sul contesto storico, costruisce nel secondo episodio una piccola storia parallela che sfiora la questione razziale (così come nel primo episodio vediamo una carica della polizia contro una manifestazione).
Duchovny fa il suo, tiene la scena con un personaggio al momento freddo e distaccato, che non gli richiede molto. Entrambi gli episodi si chiudono con una scena che coinvolge Manson e un altro personaggio, momenti disturbanti al punto giusto, quelli destinati a rimanere più impressi nel corso di una visione che per il resto soffre di vari cali di ritmo. C'è poco di veramente incisivo e ancora meno di originale, ma per una miniserie da tredici episodi – che in fondo in questa doppia première di cadute gravi non ne ha – potrebbe andar bene anche così.