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Severance, cioè separazione, rottura. Qualcosa che si spezza senza guarire, un piccolo trauma che pulsa in continuazione sotto la superficie, sempre lì in agguato a ricordare rinunce e rimpianti. Settima e ultima stagione di Mad Men, appena sette episodi alla conclusione della migliore serie tv in onda e, ormai alla fine di questo lunghissimo percorso televisivo, non molto di nuovo da raccontare. Le tensioni sono sempre le stesse, e i personaggi anche: per chi li ha seguiti e amati tutto questo non è nient'altro che un lungo addio, il racconto di un'era che si adagia sulla giusta conclusione, forse un sogno dal quale, per noi e per loro, è arrivato il momento di svegliarsi. Don, Peggy, Joan, Pete, Roger e tutti gli altri, divorati e digeriti dagli anni '60, spaesati in un decennio che faticano a comprendere.
È la continuazione dei bilanci di una vita come si era iniziato a tracciare nella prima parte di stagione, trasmessa circa un anno fa dalla AMC. Non un nuovo inizio, non una nuova vita, solo vecchie prospettive che si scontrano col tempo che passa, che lasciano a terra delusi e amareggiati. Il creatore Matthew Weiner sale in cattedra e scrive un episodio che è un distillato delle tensioni emotive della serie. Un episodio che, salvo alcuni momenti onirici e almeno una svolta inattesa, si attesta sui normali livelli dello show, magari anche un gradino più in basso: che per Mad Men vuole comunque dire meglio del 90% delle serie in onda.
Apertura e chiusura affidate alla voce di Peggy Lee con "Is That All There Is?", con chiosa finale e illuminante del discorso di Richard Nixon tenuto il 30 aprile del 1970 nel quale si annunciava il parziale ritiro delle truppe dal Vietnam (la guerra sarebbe durata per altri cinque anni). Nel viaggio umano di Don e degli altri ancora una volta si identifica, si "soggettivizza" il malessere di una nazione intera. L'American way of life è stato un bellissimo sogno, è come Rachel che torna da un passato ormai lontanissimo, a ricordare ciò che era e ciò che avrebbe potuto essere. Ma, appunto, è solo un sogno, e il ritorno alla realtà sarà brusco e implacabile. Don Draper, Tony Soprano degli anni '60, che vorrebbe essere, e invece può solo accontentarsi di apparire: il fantasma del passato significa la morte, che ancora una volta, come costante delle ultime stagioni, si manifesta come tema ricorrente.
In Waterloo era l'invito di Bert a godersi la vita, perché in fondo "le cose migliori sono gratis", mentre qui è Rachel che lascia una bella famiglia e dei bambini. Il resto è simboli, elementi ricorrenti, un mondo che crolla tra sorrisi di circostanza. La benda sull'occhio di Ken, i baffi di Roger, il passaporto di Peggy e i vestiti di Joan, tutto esprime solitudine e insoddisfazione, la ricerca di una felicità che in realtà passerebbe per cose che gli occhi non possono vedere. Il futuro irraggiungibile è ad un passo, e come nelle migliori storie la scoperta passa per una rivelazione: ridurre tutto alla passione di una vita, come può essere la scrittura, o alle aspirazioni di sempre, viaggiare o essere accettati, e voltare le spalle a tutto questo forse per pigrizia, forse per paura, forse perché ormai l'epoca d'oro è terminata e rimangono solo i rimpianti. Niente famiglia di Don in questa strana première, solo una visione corale della SC&P o di ciò che ne rimane.
Il tutto all'ombra di un omaggio e un saluto a Mike Nichols, posto non alla fine della puntata – come avviene di solito – ma all'inizio, quasi a indirizzarci fin da subito verso la chiave di lettura di un mondo che finisce, di una rivoluzione senza vincitori, filtrata attraverso il volto di tanti piccoli "laureati" insoddisfatti dagli sconvolgimenti sociali della fine degli anni '60. Un passaggio storico che, destati da un sogno, si porta via tutte le promesse di gloria e immortalità e ci lascia con una sola domanda: "Is that all there is?"