Agent Carter 1x01 "Now is Not the End"/1x02 "Bridge and Tunnel": la recensione

Il doppio pilot di Agent Carter, la nuova serie della Marvel, è una riuscita variazione rispetto ai canoni dell'universo dei supereroi

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“What’s your name darling?”“Agent.”

Dalle siderali distanze del cosmo a quelle, ancora più irraggiungibili, del proprio passato. Dopo aver raccontato le disavventure spaziali dei Guardiani della Galassia, il Marvel Universe si congeda, solo per una brevissima parentesi, dai superpoteri e dalla Fase 2 ormai in dirittura d'arrivo, per rafforzare una parte delle sue fondamenta. Lo fa con Agent Carter, miniserie in otto episodi (eventualmente seguiranno altre stagioni), più spin-off di Captain America che serie gemella di Agents of S.H.I.E.L.D., anche questa trasmessa dalla ABC. Prova generale per l'invasione delle serie Netflix, curioso esperimento televisivo, celebrazione di uno dei personaggi femminili più riusciti del MCU: in ogni caso Agent Carter esordisce con un doppio pilot da promuovere, originale e con una bella visione "d'epoca".

La citazione iniziale, tratta dal secondo dei due episodi trasmessi, ci riporta alla battuta pronunciata da Tony Stark in Avengers, quando, riferendosi a Coulson, affermava: "his first name is Agent!". Non sono pochi i rimandi tra i due personaggi protagonisti, ma in realtà tra l'unica serie Marvel andata in onda fino ad ora e Agent Carter sono più le differenze che i punti in comune. La serie con Hayley Atwell appare condizionata, in senso positivo, più dal legame con Captain America che con il futuro dell'agenzia di sicurezza internazionale. Lo è fin da un prologo che ci riporta all'ultimo dialogo tra Peggy e Steve, e su questa strada proseguirà con un doppio episodio nel quale, a più riprese, il fantasma di Captain America tornerà sotto forma di ricordo, semplice pettegolezzo dei colleghi della protagonista, o addirittura personaggio di un mediocre serial radiofonico.

Chi ha visto Captain America – The Winter Soldier, sa che i due si ritroveranno moltissimi anni dopo, ormai separati dai decenni, ma tutto questo qui non importa. Agent Carter non è un prequel in senso stretto, ma più un sequel/spin-off televisivo di Captain America. Non vive sul miraggio del futuro che arriverà e che già gli spettatori dei film conoscono, ma piuttosto sulle ceneri del vuoto lasciato dopo la fine della guerra. Uno spazio che rigetterà Peggy fuori da quella sfera di responsabilità e comando che aveva raggiunto, per relegarla a compiti quasi da segretaria in un clima, quello della SSR (Strategic Scientific Reserve), mosso da pregiudizi e sessismo. L'evento di rottura è la richiesta di aiuto da parte di Howard Stark (praticamente un cameo quello di Dominic Cooper), al momento accusato di tradimento per aver venduto le sue armi ad un offerente straniero, e invece vittima di un furto.

Si forma quindi la "strana coppia" che opererà sul campo, e alle spalle della SSR. Da un lato la rigida Peggy Carter, ansiosa di riscatto, e dall'altra l'impettito e fuori posto maggiordomo Jarvis (James D'Arcy) che si daranno da fare per recuperare le armi letali. Il tutto all'ombra di un nemico ancora tutto da svelare, finora identificato esclusivamente dal nome Leviathan, e prima della costituzione dello S.H.I.E.L.D. di cui, come sappiamo, la Carter sarà una figura decisiva nei suoi primi anni di storia. Piccola nota: nella timeline generale gli eventi narrati nel Marvel One-Shot del 2013 si collocano dopo questa stagione.

Da un punto di vista stilistico e narrativo la nuova serie della ABC appare più svincolata rispetto al prodotto "gemello" in onda sullo stesso network. Una parentesi narrativa lontana, debitrice esclusivamente nei confronti del film predecessore, che si apre sulle ampie distese dei decenni che la separano dagli eventi di Iron Man, prodotto successivo nella timeline. È allora che, su una narrazione tesa e serrata, la coppia di autori formata da Christopher Markus e Stephen McFeely – già sceneggiatori dei due Captain – può permettersi di giocare in fase creativa con un approccio old-style, con utilizzo delle luci che richiama l'età d'oro e una fotografia "d'epoca". È questo il tramite creativo che permette di innestare nella storia una scrittura e una regia (tornano due nomi noti dello Studios come Louis D'Esposito e Joe Russo) decisamente più "moderne".

Ma il vero fulcro della serie, e non potrebbe essere altrimenti, è la protagonista. Il lavoro di Hayley Atwell rischia di passare in secondo piano, ma è la sua figura, ben interpretata e ben scritta (si potrebbe fare un confronto con Vedova Nera, e l'esito non sarebbe così scontato), così lontana dalle classiche damsel in distress, a catalizzare tutta l'attenzione e a reggere il peso della storia. Che, non solo per la breve durata, vale la pena di seguire per scoprire dove ci porterà.

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