The Killing (quarta stagione): la recensione
Il commento alla quarta e ultima stagione di The Killing: la storia di Linden e Holder si conclude su Netflix
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Acqua che scivola sul viso, ancora una volta, ma non è la pioggia che abbiamo imparato a conoscere. Una doccia, acqua che scorre, sangue, forse lacrime. La serie riprende esattamente dove l'avevamo lasciata, con Linden (Mireille Enos) e Holder (Joel Kinnaman) a fare i conti con l'omicidio a sangue freddo di Skinner, che nell'ultimo season finale si era scoperto essere il killer delle giovani donne denominato Pifferaio Magico. Quell'inquadratura finale sospesa sul volto devastato della protagonista era stata una pugnalata allo stomaco, e la lama era scivolata ancora più in profondità dopo aver appreso della cancellazione della serie. Al di là del risultato raggiunto dalla stagione, un vero finale era dovuto, e siamo contenti di aver avuto l'occasione di conoscere il seguito della storia.
E poi il caso stagionale, quello di una benestante famiglia che viene completamente sterminata, e in cui solo figlio maggiore viene ritrovato con una tremenda ferita alla testa e una pistola in mano. Si è trattato, come sembrerebbe, di un omicidio-tentato suicidio, o c'è qualcosa di più nascosto? Una pistola mancante, l'apparente sincerità del ragazzo di nome Kyle (Tyler Ross), che non ricorda nulla di quella sera, i segreti in cui la famiglia sembrava affogare: da qui partono le indagini, che presto si concentrano nell'ambiente di un'accademia militare nella periferia della città. E qui nuovi personaggi, come i compagni di Kyle, Lincoln Knopf (Sterling Beaumon) e AJ Fielding (Levi Meaden), e come la sovrintendente dell'accademia, il colonnello Margaret Rayne (Joan Allen).
La quarta stagione di The Killing è una piccola parentesi, forse non memorabile, ma dovuta, per concludere questa bella storia televisiva che, da remake, è riuscita a ritagliarsi un proprio posto, a sopravvivere e a raggiungere una sua identità. I due interpreti principali si confermano una certezza dello show, e la presenza di Joan Allen è un valore aggiunto non da poco al cast. Per il resto una Seattle sempre cupa e affascinante, ripresa con la solita eleganza e con una regia che vede intervenire nel suo ultimo atto anche il regista premio Oscar Jonathan Demme.
Dopo una necessaria parentesi di riallacciamento con il finale della terza annata, la stagione corre veloce verso il season finale. Talmente veloce che i contorni del traguardo, seppur sbiaditi, ci appaiono fin dal primo episodio. Una volta inquadrati i temi centrali della stagione, prestando attenzione ad alcune puntuali frecciate della scrittura, e lavorando con semplice logica su strutture narrative ormai collaudate, non dovrebbe essere difficile carpire fin da subito un elemento chiave della storia. Sostenuto, ma anche intrappolato, dai pochi episodi a disposizione, The Killing taglia praticamente tutti i rami morti della vicenda, quelli sui quali invece si era mosso soprattutto nella sua prima stagione, causando anche la rabbia di quanti all'epoca desideravano veder svelato l'assassino di Rosie Larsen nel season finale. Quasi tutto ciò che rimane è indispensabile.
D'altra parte in The Killing la scoperta della verità sul caso, per quanto importante, non è l'unico motivo di interesse. Non si spiegherebbe altrimenti il dispiacere di fronte al finale tronco dello scorso anno, e la necessità di dare una conclusione alla storia. Dopo tante puntate, la storia è diventata anche la cronaca del particolare rapporto tra i due protagonisti, a metà tra la distanza che la professionalità imporrebbe e l'amicizia e solidarietà che sorgono in condizioni limite. Ed è qui, nell'ultima parentesi della storia, che il rapporto genitoriale emerge come centrale. Quindi percorso di maturità dei protagonisti, presa di coscienza del forte impatto che le mancanze dei genitori hanno avuto sulla loro personalità. Linden teme di diventare come sua madre, che puntualmente tornerà nella storia, e Holder, che presto diventerà padre, teme di comportarsi come il suo. Forse inconsapevolmente è stato sempre questo elemento a legarli e ad avvicinarli, loro che erano quasi inavvicinabili per tutti gli altri.
E da questo anche il rapporto tra i due, con una Linden più matura – materna? – nelle prime due stagioni, che invece ha lasciato il passo alla guida del suo collega più giovane, molto più cresciuto rispetto agli esordi. Questo è The Killing nel suo ultimo anno: di genitori che si scoprono figli, e di figli che diventano genitori. E il modo in cui tutto questo e il tema della famiglia trovano conferma nel caso stagionale è solo l'ultimo pezzo di un mosaico evidente fin dal principio. E poi c'è la ricerca dell'Eden che dicevamo al principio, e che non è casuale come riferimento. La storia ce lo dice, anche qui fin da subito, con un dialogo nel primo episodio in cui l'Eden, che tra l'altro dà anche il titolo al series finale, simboleggia una casa da ritrovare: il bisogno di combattere il senso di non appartenenza. E l'Eden, sempre nel finale, finisce per coincidere in modo fin troppo evidente con Seattle, luogo di morte, di sofferenza, ma dove forse c'è anche qualcos'altro. Alla fine, forse in modo un po' fuori luogo e sdolcinato dopo tanto pessimismo, è l'arcobaleno che arriva dopo tutta la pioggia delle quattro stagioni.