Looking (prima stagione): la recensione

La recensione della prima stagione di Looking, lo show della HBO

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Nessun altro network racconta la vita come la HBO. La vita che non è nella perfezione dei sogni, della finzione, di un futuro astratto, ma è in un presente immediato e dimesso, un semplice collante tra lavoro, affetti e poco più. La vita così come viene, e quindi raramente eccezionale, spesso noiosa, fatta di routine e piccole mediocrità quotidiane, la vita che non trova necessariamente un senso alla fine della giornata, quando tutto va a posto e la morale giornaliera viene appresa, ma dove ogni cosa è un continuo scivolare in avanti, senza mai arrivare. Looking, come Girls, come How to Make It in America, come Treme, è anche questo. E lo è fin dal suo nome, che viene reiterato nel titolo di ogni episodio stagionale, spesso con accezioni diverse. Tra queste quella di cercare: looking for something, molto in generale, senza mai approdare a nulla di concreto.

E non perché, molto classicamente, il senso sta nel viaggio e non nella meta, ma perché, più banalmente, è la vita stessa ad essere costruita in questo modo. La serie di Michael Lannan è la lente, la fotocopia, infine lo specchio (Looking Glass, anche titolo dell'ultimo episodio) delle vite normali di tre giovani omosessuali di San Francisco. Patrick (Jonathan Groff), programmatore di videogiochi, Dom (Murray Bartlett), cameriere, e Agustín (Frankie J. Alvarez), aspirante artista. Così li abbiamo conosciuti all'inizio della stagione, e praticamente così li lasciamo. Nel frattempo poco o nulla di eccezionale. Vicende professionali o più spesso relazionali, raccontate con la giusta distanza e un certo distacco, comunque nulla che non si possa riassumere in un paio di righe.

Ancor più di Lena Dunham, che con la sua personalità magnetica e la sua sistematica e sarcastica critica al superficiale ha fin da subito imposto la propria mano su Girls, Looking lavora per sottrazione, eliminando anche qualunque tentativo di seconda lettura sullo show. Non c'è una tesi da sviluppare, le concessioni allo spettacolo – mostrato con una mano talmente intima da farci quasi sentire degli intrusi, come nel particolare Looking for the future – sono pochissime, giusto quelle che servono a dare un impulso alla trama e a non lasciare che tutto si sfilacci lungo gli episodi. Sarebbe inutile, dopo tutto questo discorso, precisare come la serie rappresenti una visione diversa e più difficile rispetto a quello che siamo abituati a definire come intrattenimento seriale.

Patrick è il personaggio più riuscito e curato, quello che riceve il maggior minutaggio e la migliore costruzione, che ci restituisce una figura inevitabilmente debole e contraddittoria (ma chi, ripreso e seguito nella propria intimità, non apparirebbe così?). Seguono con un certo distacco Dom e Agustín, in ogni caso da promuovere le intepretazioni del trio e dei personaggi di contorno. I dialoghi sono adeguati allo show, contribuiscono a restituire un'idea di quotidianità romanzata che funziona e risulta credibile. E la stessa idea, fuoriluogo e fuorviante, della presenza di una "tematica omosessuale" alla base viene rigettata, riprendendo nel corso della stagione quella linea che era stata tracciata fin dal pilot.

A pochi mesi da La vita di Adele, un'opera che pone una relazione omosessuale alla base della storia, ma non ne fa il centro assoluto in quanto tale, Looking mette in scena, anche qui, ancora una volta, la quotidianità. L'omosessualità in sé emerge ovviamente, come quando Patrick sembra temere il confronto con i genitori, per poi scoprire come tutto o quasi sia solo nella sua mente, ma nulla di più. Looking non cerca lo scandalo né visivo né concettuale, semplicemente pone la normalità al centro di tutto, una neutralità che paradossalmente è già una presa di posizione.

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