Mob City di Frank Darabont: la recensione della première
Lo show di Frank Darabont non va oltre i soliti stereotipi del noir e non convince
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Dalla brutta opening al titolo stesso dello show, sembrerebbe esserci un tentativo di strizzata d'occhio a Sin City dell'accoppiata Rodriguez-Miller. Dalla città del peccato a quella della malavita, ma così non è. La serie di Darabont, che andrà in onda per sei episodi trasmessi a coppie (i primi due erano A guy walks into a bar e Reason to kill a man), lavora in una costante opera di sottrazione: meno stile, meno originalità, meno modernità. E non ha nemmeno la forza autoriale necessaria per porsi come un sincero omaggio al genere, pur rimanendo sempre alla sua ombra (ad un certo punto Simon Pegg citerà la battuta finale di Piccolo Cesare, uno dei film più importanti dell'epoca). Né omaggio né rielaborazione, Mob City è una curiosa, neutrale e quasi indecifrabile riproposizione di schemi visti e rivisti più volte, di stereotipi che hanno fatto la fortuna del genere e che sono talmente noti da essere riconosciuti anche da chi non abbia mai visto un film dell'epoca.
Per il resto Darabont ha attinto ad un cast di nomi, e volti, riconoscibili, ma non altrettanto eccellenti. Direttamente da The Walking Dead tornano Jon Bernthal e Jeffrey DeMunn, mentre in ruoli secondari troviamo Milo Ventimiglia (il Peter Petrelli di Heroes), Robert Knepper (Prison Break) e Neal McDonough. Bocciato quindi questo esordio dello show, che procede stancamente, soprattutto nella seconda parte, privo di identità, sia essa quella dei molti protagonisti o quella – fondamentale nel genere – della città stessa in cui tutto ambientato, in questo caso Los Angeles.