Mob City di Frank Darabont: la recensione della première

Lo show di Frank Darabont non va oltre i soliti stereotipi del noir e non convince

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Il noir è morto. Ok, detto così sembra un po' drammatico. Semplicemente è un particolare genere che, nella sua forma più pura, quella che convenzionalmente occupa l'intervallo cinematografico che va dal 1941 al 1958, non esiste più. Non a caso, sempre convenzionalmente, tutto ciò che è stato realizzato dopo quella data e che in qualche modo ha rielaborato gli elementi fondamentali del genere va sotto la categoria neo-noir. Una sorte non troppo diversa da quella del genere western, per usare un esempio forse più familiare. Mob City, ultimo prodotto curato da Frank Darabont, che dopo aver aver ampiamente detto la sua, senza mandarle a dire, sul suo rapporto con la AMC, si è diretto verso le più confortevoli – a suo dire – spiagge del network via cavo TNT, non ha quello stile e quella freschezza che un'operazione del genere richiederebbe.

Dalla brutta opening al titolo stesso dello show, sembrerebbe esserci un tentativo di strizzata d'occhio a Sin City dell'accoppiata Rodriguez-Miller. Dalla città del peccato a quella della malavita, ma così non è. La serie di Darabont, che andrà in onda per sei episodi trasmessi a coppie (i primi due erano A guy walks into a bar e Reason to kill a man), lavora in una costante opera di sottrazione: meno stile, meno originalità, meno modernità. E non ha nemmeno la forza autoriale necessaria per porsi come un sincero omaggio al genere, pur rimanendo sempre alla sua ombra (ad un certo punto Simon Pegg citerà la battuta finale di Piccolo Cesare, uno dei film più importanti dell'epoca). Né omaggio né rielaborazione, Mob City è una curiosa, neutrale e quasi indecifrabile riproposizione di schemi visti e rivisti più volte, di stereotipi che hanno fatto la fortuna del genere e che sono talmente noti da essere riconosciuti anche da chi non abbia mai visto un film dell'epoca.

C'è un vago e poco incisivo dialogo tra le epoche, con rapidi flashback negli anni '20 che dovrebbero rappresentare il prologo alla scalata alla mala (qui il riferimento dovrebbe essere Scarface, non quello con Al Pacino, ma quello del 1932), ma che finiscono per essere tanto blandi che solo un fastidioso voice over (questo invece è un meccanismo chiaramente ripreso dal genere hard-boiled) ci permette di ricollegarli al presente della narrazione. Il resto è una classica passerella dei tipici elementi del genere: il poliziotto poco integerrimo, il boss, la scalata al potere, la femme fatale. L'unico spunto è quello offerto dal miglior attore del cast: quel Simon Pegg che inevitabilmente catalizza l'attenzione nelle proprie scene, ma che non può fare miracoli.

Per il resto Darabont ha attinto ad un cast di nomi, e volti, riconoscibili, ma non altrettanto eccellenti. Direttamente da The Walking Dead tornano Jon Bernthal e Jeffrey DeMunn, mentre in ruoli secondari troviamo Milo Ventimiglia (il Peter Petrelli di Heroes), Robert Knepper (Prison Break) e Neal McDonough. Bocciato quindi questo esordio dello show, che procede stancamente, soprattutto nella seconda parte, privo di identità, sia essa quella dei molti protagonisti o quella – fondamentale nel genere – della città stessa in cui tutto ambientato, in questo caso Los Angeles.

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