Vikings: la recensione del season finale

Brutalità e violenza, ma anche un'ottima ricostruzione e approfondimento antropologico in una delle novità più interessanti dell'anno

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Malgrado un season finale non completamente riuscito nel raccogliere l'eredità dell'ottima puntata precedente, il racconto dell'epopea del guerriero vichingo Ragnar Lodbrock si chiude in maniera soddisfacente. In attesa della seconda, già confermata, stagione, si può dire infatti che il prodotto di History Channel sia riuscito a vincere la propria scommessa, rivelandosi come una delle nuove proposte più interessanti dell' anno. La proposta dell'emittente di coniugare una  narrazione a metà fra il documentaristico e l'epico, come chiaro fin dal primo episodio, è stata portata avanti con costanza, cedendo in alcuni momenti a qualche esagerazione di troppo, ma senza mai perdere di vista l'obiettivo fondamentale.

"All Change", nonostante la mancanza di un'intensità emotiva e narrativa che si richiederebbe ad un finale di stagione, riesce in qualche modo a tirare le fila di un'annata fondamentalmente incentrata, e il titolo ci aiuta, sui grandi cambiamenti e sugli scontri che questi portano. Che se nelle cosiddette società "civili" i grandi mutamenti non sono mai accompagnati a transizioni pacifiche, figuriamoci in una società viscerale, bruta, completamente dedicata ad esteriorizzare in maniera eclatante qualunque momento sociale come quella dei Vichinghi. I cambiamenti cui fa riferimento il titolo dell'episodio non sono dunque tanto quelli della puntata, che infatti si limita, a partire dal cliffhanger finale, a confermare quanto già chiaro nella mente dello spettatore, ma quelli raccontati nell'arco dell'intera stagione.

Il percorso di ascesa di Ragnar è stato raccontato in maniera diretta, con rapidità e brutalità. Senza indulgenza abbiamo assistito ai massacri dei cristiani, al confronto con il vecchio Jarl, al percorso di conquista di un personaggio che, nonostante la sua "aura leggendaria" si presenta come assolutamente umano e perfetto rappresentante di tutti i pregi e difetti della sua società. Cambiamenti poi, interni ad una realtà che, nonostante la sua brutalità, vive con estremo rispetto una dimensione religiosa, sociale, famigliare, ognuna intrecciata con le altre, ma che si trova storicamente a pagare il prezzo del suo navigare oltre i consueti confini, e a scoprire nuovi mondi. A questo proposito il nostro punto di vista viene presto a coincidere con quello del monaco Athelstan, fatto prigioniero, in bilico tra due religioni, due culture, due modi di essere.

E su tutta la dimensione narrativa, che si mantiente coinvolgente e interessante, una ricerca e ricostruzione documentaristica che dà il suo meglio quando si mantiene vicina ai protagonisti ma che si perde nel confronto/scontro con i nemici inglesi, mancando un pò di tensione (quasi non si possa ammettere qualche difficoltà per i Vichinghi che non provenga dai Vichinghi stessi). È evidente in questi casi la volontà di ridurre, forse un pò paradossalmente, una vicenda prettamente storica/epica, e che quindi poteva aprire scenari molto ampi, ad una visione al contrario più umana, più intima, e che faccia dell'approfondimento antropologico (come avrebbero agito i Vichinghi?) il suo punto di forza. I rari momenti di silenzio sono poi ben riempiti da una fotografia, e in generale da una tecnica, che quando non ci raccontano dei protagonisti sono ben felici di adagiarsi sui nebbiosi e affascinanti paesaggi del nord Europa.

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