Nel percorso umano di Elizabeth e Philip c'è tutta l'incoscenza di un mondo che si avvia verso un cammino di disintegrazione, un mondo in cui le mura, quelle concrete che a Berlino spaccano in due l'Europa e quelle astratte delle
ideologie, stanno per crollare, un mondo in cui, come nella bellissima opening di
The Americans, le stelle e le strisce si fondono con la falce e il martello fino a far perdere qualunque confine. Sono gli anni '80 che si dirigono a gran velocità verso la fine di un equilibrio che dalla fine della Seconda Guerra Mondiale era immutato, e i due agenti russi infiltrati sul suolo americano ne sono testimoni, inconsapevoli o meno, e soprattutto protagonisti. Dalla grande Storia che si compie nell'epoca
Reaganiana, alla piccola storia di due pedine bianche su un suolo nero – o viceversa – che ci raccontano il fondersi di una realtà nell'altra fino alla creazione di un unico, triste,
grigio mondo.
Partito in sordina, con un pilot convincente nella ricostruzione dell'ambientazione ma che non lasciava intendere bene lungo quali linee si sarebbe mossa la narrazione, il prodotto di FX ha convinto settimana dopo settimana, senza ricorrere a grandi twist o ad esagerazioni. Rigettando qualunque paragone con Homeland, con cui praticamente non condivide nemmeno il genere, parlando infatti uno di spionaggio e l'altro di fantapolitica, The Americans ha apertamente seguito la strada del confronto, settimana dopo settimana, dei due modelli. In un gioco delle parti in cui le similitudini sono molte di più delle differenze, si è scelta un'impostazione in cui spesso le due storyline principali dell'episodio, una riferita agli agenti sovietici, una riferita al controspionaggio americano, finiscono per convergere su un medesimo obiettivo. Lo scopo è quindi quello di mettere in luce la contrapposizione tra due modelli in realtà molto simili e che, nelle differenze, che comunque esistono, finiscono addirittura per farci empatizzare con i "crudeli" russi.
Attenzione però, che qui non siamo di fronte né ad una sorta di revisionismo storico, né al facile tiro al bersaglio sugli americani che vengono fatti passare per i cattivi della situazione.
The Americans restituisce ai propri protagonisti la
responsabilità delle proprie azioni, ne fa i portavoci di due diverse forme di "male", li inserisce in una spirale di meccanico indebolimento dei rispettivi schieramenti, ma al tempo stesso garantisce loro un ampio margine di scelta, volontà, individualismo. Ecco quindi che spesso l'eliminazione sistematica dell'avversario si fonde con la
vendetta e con la rappresaglia. La nostra
empatia ai coniugi Jennings non è costruita quindi sulle loro azioni, che spesso anzi sempre sono molto discutibili, ma sulla loro innegabile umanità e sul contrasto tra la loro natura di agenti spietati e padre e madre di famiglia. A proposito del contesto familiare è bene sottolineare la differenza, per tornare a
Homeland, tra il più riuscito personaggio della figlia Paige e quello, costantemente sopra le righe, di Dana Brody.
Nonostante qualche parentesi poco riuscita, lenta e discutibile verso la metà della stagione, The Americans ha portato avanti con costanza un percorso di ricostruzione dei propri protagonisti che ha trovato la sua sintesi nella bella puntata finale. La tematica chiave è quella dell'identità: ancora una volta rappresentazioni umane di un mondo sull'orlo del crollo, i due agenti sovietici si scontrano con l'assuefazione alla American Way. Se Elizabeth reagisce in maniera più ferma, Philip, pur continuando a fare il suo dovere, avverte ormai apertamente la contaminazione. Vita, libertà e ricerca della felicità: di fronte al riconoscimento di questi diritti molte certezze vacillano e l'identità fittizia con la quale si convive da moltissimi anni finisce quasi per prendere il sopravvento sulla precedente.
Con un colpo di mano a sorpresa rispetto al pilot, l'evoluzione della storia ha scelto poi di non muoversi sul filo del rasoio della possibile indagine del vicino di casa
Beeman, agente FBI, sui coniugi: il confronto tra le due famiglie serviva solo nella prima puntata per presentarle insieme e seguirne poi le vicende familiari mettendone in luce, ancora una volta, similitudini e differenze. Un'ottima
ricostruzione storica, delicata nel mostrare senza sottolineare troppo le differenze, un ritmo sempre equilibrato nel suo avanzare coinvolgendo e costruendo una buona tensione ma senza cedere ad esagerazioni, una buona regia e una
fotografia dimessa e quasi claustrofobica, efficace nel trasportarci in quelle spy story classiche in cui l'agente, seduto su una panchina di un parco con alle spalle un albero spoglio, si prepara a ricevere informazioni (a questo proposito in
Tinker Tailor Soldier Spy di Alfredson nel 2011 si era fatto un lavoro magnifico), una perfetta coppia di protagonisti (
Keri Russell e
Matthew Rhys, qui chiamati ad interpretare più identità diverse) e un cast generalmente soddisfacente sono le coordinate tecniche di una delle migliori sorprese dell'anno.