House of Cards: la recensione

Da uno straordinario Kevin Spacey a una scrittura formidabile, lo show di Netflix è ad oggi la serie migliore del 2013

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House of Cards: la recensione

Un cagnolino viene investito all'angolo di una strada, un uomo si avvicina, capisce che per la bestiola non c'è più nulla da fare e, per non farla soffrire più, la soffoca con le sue stesse mani, senza rimorso, senza esitazione. Con questa scena si apre House of Cards, ad oggi la migliore serie del 2013. E con questa scena si alza il sipario sul monumentale e tragico racconto in tredici capitoli della scalata al potere di Frank Underwood e sull'ambizioso progetto promosso da Netflix che per modalità di trasmissione e per la sua qualità intrinseca potrebbe rappresentare un punto di non ritorno per la serialità.

Kevin Spacey - House of Cards

House of Cards è un racconto di vendetta, di rancore e di prevaricazione, una rielaborazione moderna dell'antica tragedia greca che rinuncia a qualunque elemento consolatorio, da una vaga idea di giustizia alla completa assenza di qualunque morale. E Frank Underwood, congressman che si vede negare la promessa carica di Segretario di Stato dal neoeletto Presidente Walker, ne è l'antieroe che domina la scena. È lui che subisce l'affronto che dà il via al diabolico piano di vendetta contro la sua stessa amministrazione, è lui che come Medea, Oreste, Atreo e tanti altri personaggi maledetti sceglie di non cedere alla rabbia cieca ma preferisce maturare e costruire la propria rivincita passo dopo passo.

È evidente fin da subito che il percorso seguito dalla serie non è quello della fedeltà e della ricostruzione documentaristica: siamo nella piena fantapolitica, quella fatta sì di accordi sottobanco e di favori e controfavori, ma che spesso e volentieri cede ad alcune soluzioni estreme ed eccede nel dramma. Ma appunto, stiamo parlando di una tragedia moderna. E, come tutte le tragedie, la messa in scena è fondamentale. E qui David Fincher, regista dei primi due episodi, sembra aver costruito il suo personale sequel di The Social Network. Ne recupera le atmosfere, la violenza verbale, la palpabile tensione degli sguardi, la regia elegantissima (questa davvero non cede mai anche negli episodi successivi ad alcuna spettacolarizzazione), la fotografia spenta e i toni cupi.

E d'altra parte non è compito del regista giudicare, ci pensa Kevin Spacey a riempire l'inquadratura, a illuminare la scena. Quello di Frank Underwood è un personaggio talmente "grande" che il suo ego non può concepire come la sua storia venga messa nelle mani di un altro narratore che non sia lui. Ed eccolo quindi rompere senza alcuna esitazione la quarta parete, diventare artefice della propria vita e anche del racconto di questa, filtrare ogni avvenimento raccontandocelo dal suo punto di vista secondo la sua particolare "moralità" (o meglio amoralità). Frank Underwood è odioso, perfido, quasi immotivatamente crudele (e se consideriamo a quali eccessi arriva nel corso della prima stagione, il suo è un personaggio fin troppo irreale e sopra le righe) eppure non possiamo fare a meno di pendere dalle sue labbra.

Perché Frank è per la politica ciò che negli anni '80 il personaggio di Gordon Gekko di Wall Street rappresentava per l'economia: è un superuomo, un essere talmente convinto di essere al di sopra delle convenzioni umane da sentirsi giustificato a scavalcarle e a costruire una propria scala di valori (nel caso di Frank prima viene il potere, poi i soldi e poi nulla). E per costruire questo personaggio Spacey sembra aver attinto a molte delle sue incarnazioni precedenti: c'è il diabolico personaggio visto in un certo film dello stesso Fincher, c'è la volontà di prendere in mano la propria vita come in American Beauty, c'è il sapersi muovere nell'arena politica come in Recount. Se di difetti bisogna parlare, allora la figura del protagonista è talmente "ingombrante" da mettere in ombra il grandissimo lavoro del resto del cast.

Che se Kevin Spacey ha un carisma quasi incontrollabile, al tempo stesso sono grandi le interpretazioni per sottrazione di Robin Wright e di Kate Mara ma anche di Corey Stoll, ognuno di loro rappresentante di un certo ambito legato a doppio filo con gli intrighi che sorgono nelle stanze del potere a Washington.

Ben lontana dall'essere debole come un "castello di carte", la scommessa di Netflix si è rivelata un successo dal punto di vista degli ascolti e della qualità. A parte alcuni inciampi nella narrazione, soprattutto in un finale apparentemente troppo frettoloso nel raggiungimento di un certo obiettivo, e alcune concessioni al dramma (è un evento ben specifico quello che risalta nella storia e che non sembra giustificato da ciò che abbiamo visto in precedenza) House of Cards si è rivelato uno show solido, dalla forma e dalla scrittura impeccabile e in grado di tirare fuori il meglio da un cast eccellente.

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