Venezia 70: Unforgiven, la recensione
Il remake giapponese del classico di Eastwood è un calco fedele che proprio per questo pare mancare l'appuntamento con un po' di senso...
C'è un certo fascino in un film di samurai giapponese che rifà un western americano scritto e interpretato da un uomo nato cinematograficamente con un western che rifaceva un film di samurai giapponese, un film giapponese il cui protagonista ha lavorato come attore in un altro film del suddetto scrittore e regista. WOOOO! Roba da Inception (in cui Watanabe ha recitato).
Quello che sfugge in questo nuovo Unforgiven è il senso ultimo. Se Eastwood usava la storia di un uomo che era stato violento e ora rifiutava quello stile di vita, almeno fino a che non viene chiamato di nuovo a calzare i vecchi panni dal suo senso di onore, amicizia e dovere, per affermare di non credere più negli eroi di un tempo o almeno in quel tipo di positività e mettere la propria pietra tombale su una certa epica del west, il film di Sang-Il Lee non può avere questa stessa portata, poichè il genere samurai non ha avuto la medesima evoluzione e perchè quel tipo eroismo e il ruolo che ha avuto nella cultura americana non si può trasporre in Giappone.
Nonostante Watanabe sia un ottimo samurai fuori servizio, un uomo svuotato da tutto con in volto sia la durezza di una vita di violenza, sia la disperazione del senso di colpa per ciò che ha fatto che l'amarezza per la morte della moglie, lo stesso il film non pare al suo livello. La sua statura e il suo essere il più americano dei giapponesi fanno al film il servizio migliore.
Il resto non è brutto cinema ma purtroppo ricalca senz'anima e si agita senza un vero perchè.