Venezia 70: Miss Violence, la recensione

L'interno di famiglia greco del concorso di Venezia si mostra spietato ma senza una vera motivazione. Non risparmia atrocità ma chiude la storia con poca capacità di creare senso...

Critico e giornalista cinematografico


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L'inizio di Miss Violence è tutto. Festa di compleanno di una bambina di 11 anni in un interno borghese. I parenti stretti, la mamma, i nonni, le due sorelle e il fratello, musica, cappellini a punta, festoni e la torta, tutto è idilliaco finchè la festeggiata non apre la finestra e si butta di sotto.

Di questa dicotomia tra ciò che appare e ciò che è nascosto a forza sotto gli abiti stirati e i mobili a posto vive tutto il film, che ha un crescendo di violenza costante e inesorabile, tutto mirato a lasciare che il marcio e quindi la causa del suicidio si scopra in maniera lentissima, perchè non è un elemento riconducibile ad un fatto solo ma un magma che si sparge e contamina tutto.

Non solo, il grandissimo pregio di narrazione e messa in scena di Miss Violence è di confondere le carte nella mente dello spettatore, a lungo incapace di capire bene i ruoli nella famiglia: chi sia figlio di chi, chi sia sorella di chi e chi nonna. Questa incertezza si rivela un'arma determinante non nella comprensione della trama (anzi la ostacola) ma nella comprensione dell'orrore.

Sono molte le violenze che si perpetrano nel nucleo protagonista e quasi mai efferate, c'è pochissimo sangue, pochi lividi ma molti schiaffi, molte umiliazioni, molte costrizioni e silenzi, punizioni e vergogne, ovvero c'è molta oppressione. Eppure alla fine questo ritratto da incubo di un inferno invisibile all'esterno scarta il più banale attacco alla borghesia (grazie a Dio non sono più gli anni...) e mira al più puro affresco di bieca umanità. E' proprio per questo allora che il finale, molto significativo appare come una consolazione (magrissima come si capisce) con poco senso, specie dopo che è stato scelto di non risparmiare al pubblico la visione dei momenti peggiori.

Miss Violence è freddo e distaccato, algido e bastardo ma tutto ciò pare non servire a nulla.

Una postilla sul contesto. La Grecia, come noto, non vive una situazione piacevole, la società di conseguenza ne risente e l'arte ne viene influenzata. E' inevitabile che una forma di narrazione che racconta l'umanità nel proprio paese e nel proprio tempo e soprattutto che è fatta di uomini che vivono questo tempo, non ne sia esente. Gli eventi politici, sociali, umani e evolutivi entrano nel cinema, sempre, sono parte inscindibile dell'universo che ha generato quella storia o il mood con cui è narrata. Tuttavia ridurre un film a "è una metafora della crisi greca" o spiegare tutto attraverso quella chiave di lettura sarebbe pauperistico e abbastanza piatto. E' più interessante che la Grecia produca affreschi umani così biechi proprio in questo momento storico che l'ipotesi del metaforone.

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