Venezia 70: L'intrepido, la recensione

Il film italiano più importante in concorso a Venezia delude moltissimo. Buonista, ripiegato su una visione vittimista della situazione attuale e soprattutto girato con vaghezza...

Critico e giornalista cinematografico


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Il titolo internazionale di L'intrepido è A lonely hero. Il protagonista Antonio Pane è dunque un eroe, chiaramente sui generis, fa mille lavori perchè di mestiere fa le sostituzioni, quando qualcuno si ammala arriva lui a fare il suo lavoro per un'ora, due ore, mezza giornata o alle volte anche di più, poi cambia. Passa da imbianchino ad aiuto cuoco, da fattorino ad operaio con scioltezza e una passione generica per il "fare cose" che porta un insolito ottimismo in una serie di disavventure per nulla positive (lo dice la fotografia come sempre epica di Bigazzi,lo dicono gli eventi). Antonio ad un concorso pubblico conosce una ragazza, la ritrova in uno dei mille lavori che fa (pulire lo stadio di S. Siro). Antonio ha un figlio che suona il sax ma ha gli attacchi di panico.

I tratti che Amelio e Albanese vogliono dare al personaggio protagonista di L'intrepido sono quelli dell'eroe chapliniano (c'è più d'una citazione evidente), l'uomo buono, piccolo e a modo suo fragile che si adopera infilandosi nelle pieghe del sistema come fossero gli ingranaggi di Tempi moderni. Ma nel suo film che vuole acchiappare tangenzialmente il mondo che viviamo (lo dice una didascalia all'inizio che è una storia di questi tempi) e vuole parlare in maniera paradossale ma concreta del lavoro e di una vita infame per chi è di buon cuore, tutto è buonista, fasullo e fuori fuoco.

Antonio Pane non fa nulla davvero per cambiare la propria situazione, vive vittima di tutti e lo stesso appare come un faro positivo, la sua amica che sembra depressa si presenta ai concorsi pubblici senza sapere nulla e anche lei pare immobilizzata, come immobilizzato dagli attacchi di panico è suo figlio con cui nessuno vuole suonare perchè inaffidabile. Tutti bloccati ma da cosa non si sa.

Un generico "è colpa della società" non viene mai detto ma aleggia. Eppure non è questo quello che rende L'intrepido un film intollerabile e fasullo quanto l'atteggiamento rarefatto del film. Quello di Amelio è un film in cui i personaggi non appena sono lasciati soli fanno un'espressione triste e guardano nel vuoto o contro un muro, che non rispondono, che buttano gli oggetti per terra senza spiegare perchè, poichè pare non ci sia nulla da spiegare, sono preda di un vago mal di vivere tanto acuto quanto immotivato quanto fastidioso.

Vivono in un universo anch'esso chapliniano fatto di spietati padroni e viscidi uomini d'affari ma non hanno nessuna tenacia, semmai un certo far poetico che non si trasforma mai in poesia, limitandosi a volerlo essere.

E anche Antonio Pane, il folletto felice senza motivo di questo film, si aggira inerme, incapace di fare qualsiasi cosa. Addirittura accompagna un bambino al parco dietro indicazione dei datori di lavoro (rigorosamente senza pretendere di sapere perchè) e quando è là e si accorge che il bambino adesca uomini più grandi (cioè pedofili) si indigna ma non fa nulla per fermare la situazione (mette su lo sguardo triste).

L'intrepido è un film che cavalca il malcontento sociale ma lo fa proponendo figure ben più deprecabili e vittimiste, che scaricano ogni responsabilità, e lo fa senza fornire alcuna motivazione ma con i silenzi e le espressioni da cane bastonato che lasciano intuire solo quello che lo spettatore già ha deciso di pensare.

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