Venezia 69: Bad 25, la recensione
Più di un documentario musicale, ma un viaggio alla scoperta della dimensione visiva di Michael Jackson a partire dalla sua musica...
Quello che si sapeva quando è stato annunciato il documentario sui 25 anni dalla prima uscita dell'album Bad è che sarebbe stata un'operazione commerciale, un racconto magnificato fatto da chi ha editato il disco allora e lo riedita adesso. Ma quel che si è capito quando è stato annunciato che la regia l'avrebbe curata Spike Lee, è che non sarebbe stato solo un documentario su un disco. E così è.
Accanto alle canzoni i loro videoclip, le immagini promozionali, le foto e il tentativo attraverso di esse di ridefinire e "aggiustare" l'identità di una star della cultura afroamericana, che proprio per l'identità era diventato in quegli anni l'oggetto del desiderio di tutti i media.
Quel che ne esce è il ritratto della costruzione di un oggetto mitico (il disco), proprio come promesso dai presupposti produttivi del documentario, mentre quel che passa sottotono (e forse per questo in maniera anche più decisiva) è una visione anticonvenzionale sul primo divo della musica ad utilizzare l'audiovisivo per la propria affermazione identitaria e quanto questo abbia cambiato il corso della cultura afroamericana.