Venezia 69: Bad 25, la recensione

Più di un documentario musicale, ma un viaggio alla scoperta della dimensione visiva di Michael Jackson a partire dalla sua musica...

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

Quello che si sapeva quando è stato annunciato il documentario sui 25 anni dalla prima uscita dell'album Bad è che sarebbe stata un'operazione commerciale, un racconto magnificato fatto da chi ha editato il disco allora e lo riedita adesso. Ma quel che si è capito quando è stato annunciato che la regia l'avrebbe curata Spike Lee, è che non sarebbe stato solo un documentario su un disco. E così è.

Benchè contenutisticamente Bad 25 si attenga al racconto della genesi delle canzoni dell'album (affrontate una per una, nell'ordine del disco) e di tutto quel che accadde a Michael Jackson e ai molti altri intervistati che presero parte all'impresa in quei mesi, formalmente Spike Lee riesce a suggerire molto di più. Per arrivare a parlare della musica passa per il video che poi equivale a dire, per la sua percezione di Michael Jackson, ovvero quella di una persona che di lavoro fa il regista.

Accanto alle canzoni i loro videoclip, le immagini promozionali, le foto e il tentativo attraverso di esse di ridefinire e "aggiustare" l'identità di una star della cultura afroamericana, che proprio per l'identità era diventato in quegli anni l'oggetto del desiderio di tutti i media.

Spike Lee sceglie di non trattare nulla di quanto siamo abituati a sentire e dire su Jackson. Nel bene e nel male. Si fa ammaliare dai racconti di Martin Scorsese riguardo il cortometraggio da lui girato nel quale è contenuto il videoclip di Bad, insegue le scelte visive imposte da Jackson stesso agli altri registi, fa domande sui rapporti con le attrici. E mentre fa tutto questo gli altri raccontano la musica, le improvvisazioni e l'attenzione maniacale riservata ad ogni nota del disco.

Quel che ne esce è il ritratto della costruzione di un oggetto mitico (il disco), proprio come promesso dai presupposti produttivi del documentario, mentre quel che passa sottotono (e forse per questo in maniera anche più decisiva) è una visione anticonvenzionale sul primo divo della musica ad utilizzare l'audiovisivo per la propria affermazione identitaria e quanto questo abbia cambiato il corso della cultura afroamericana.

Continua a leggere su BadTaste