Una fragile armonia, la recensione
Un film tutto scrittura e recitazione, equilibrato e serio che soprattutto tratta la musica classica non come un'arcana passione per freak ma come un lavoro e un amore
Musica da camera per drammi da camera. Yaron Zilberman scrive e dirige una piccola opera di umanità per sineddoche. La metafora che fa da ossatura al film la spiega inizialmente Christopher Walken (e nonostante la spiegazione esplicita in faccia allo spettatore non sia mai il massimo stavolta il racconto è così ben scritto da essere tollerabile): l'Op.131 di Beethoven è un quartetto in 7 movimenti pensato per non avere pause, il problema nell'eseguirlo è che dopo un po' gli strumenti si scordano dunque o ci si ferma andando contro la volontà dell'autore o si procede senza pause cercando di aggiustarsi a vicenda mentre si avanza.
Un film come Una fragile armonia si regge dunque inevitabilmente sulla scrittura e Zilberman non fallisce, non cerca per nulla l'assoluzione facile dei personaggi nè sfrutta la musica come il facile grimaldello per scatenare empatia. Ogni brano della colonna sonora (esclusi quelli originali) è infatti utilizzato in chiave antisentimentale.
Soprattutto è il rapporto con la classica ad essere finalmente profondo, empatico e significativo. Solitamente Hollywood ha con la musica classica (come con altre attività di nicchia tipo gli scacchi) un rapporto di distante mitologia, la vede come un miraggio distante, la usa per definire stereotipicamente i personaggi oppure per generare facili commozioni come fa anche il non-hollywoodiano Il concerto di Mihaileanu, campione di sfruttamento becero della mitologia popolare che esiste intorno alla classica.