Super - La recensione
Un Rainn Wilson perfetto nei panni del perdente borderline in una pellicola che tocca troppi argomenti senza approfondirne a dovere nemmeno uno...
L'ultimo in ordine di tempo ad arrivare sui nostri schermi cinematografici è proprio quello di James Gunn, incentrato sul più proverbiale degli sfigati, tale Frank D'Arbo (Rainn Wilson), che decide di mettersi a ripulire le strade dal crimine nei panni di Crimson Bolt spinto da una motivazione ben distante dai valori universali della giustizia e della rettitudine propri di ogni buon supereore: salvare sua moglie Sarah (Liv Tyler), un'ex alcolizzata, che lo ha lasciato per andare a vivere col boss del crimine di zona, Jacques (Kevin Bacon) ripiombando nel tunnel della dipendenza dagli stupefacenti. Con la complicità di una visione in cui viene letteralmente toccato dalla mano di Dio, capisce di essere il prescelto dal Signore per un compito molto speciale: proteggere il prossimo dai criminali e trarre in salvo la sua consorte. Purtroppo però Frank ha degli evidenti disturbi della personalità causati da una vita da perenne perdente e, anche a causa della sua iperattiva spalla mascherata Boltie (Ellen Page), la sua carriera di giustiziere non va per il verso giusto.
Eppure qualcosa non funziona in Super.
Il suo maggior difetto è quello di non riuscire a percorrere con decisione una strada ben precisa: vuole essere una black comedy, ma poi vira improvvisamente verso il dramma, vuole essere una satira di certi deliri d'onnipotenza prettamente statunitensi, ma poi si dimentica di portare in tavola quanto promesso dal menù. Propone validi percorsi narrativi ed interpretativi senza però avere il coraggio di approfondirne a dovere almeno uno. Su tutti: l'infatuazione mistico-religiosa del personaggio di Frank, la sua ossessione per il canale via cavo All-Jesus Network dove un improbabile Santo Vendicatore in calzamaglia difende gli inermi adolescenti dalle tentazioni della droga e del sesso prematrimoniale poteva rappresentare, da sola, un ottimo pretesto per intabulare una corrosiva satira dell'ossessione calvinista tutta americana di porsi al di sopra di tutto e di tutti come unici depositari del compito di mantenere la giustizia nel mondo, decidendo unilateralmente chi sia meritevole o meno dell'appellativo di stato canaglia perché, d'altronde, “In God They Trust” e viceversa. La stessa schizofrenia del protagonista, tratto distintivo di tanti supereroi e supervillain (restando in ambito cinematografico nella scena del Cavaliere Oscuro in cui Batman interroga Joker, in una sola stanza, abbiamo come minimo 4 diverse personalità a confronto), viene trattata in maniera abbastanza stereotipata, malgrado la bravura, innegabile, Rainn Wilson. L'attore aveva già dato modo di saper interpretare in maniera molto credibile un “loser” nel sottovalutato The Rocker di Peter Cattaneo e nella pellicola di Gunn dimostra di essere ulteriormente cresciuto sul fronte artistico. Tuttavia, per colpa di un personaggio che a volte agisce seguendo un ideale di (perversa) giustizia se non condivisibile, quantomeno giustificabile, stabilire un processo di vera e propria empatia risulta difficoltoso a causa di una sceneggiatura che, all'improvviso, calca troppo la mano su una sorta di pseudo-autismo che lo conduce a compiere atti del tutto arbitrari e discutibili. Che però, se gestiti con maggior profondità, avrebbero portato alla critica al “sistema America” di cui sopra. Un circolo vizioso da cui Super non riesce ad uscire ed il potenziale resta davvero sprecato.
Il calice viene reso anche più amaro dal fatto che la regia di James Gunn propone delle soluzioni visive di un certo impatto. Di regola, il regista segue Frank con una camera a mano che trasporta in maniera egregia lo spettatore nel bizzarro contesto umano del film, ma la vera alzata d'ingegno sono gli inserti grafici impiegati durante gli scontri di Crimson Bolt che richiamano in modo evidentissimo il mondo camp del Batman di Adam West degli anni sessanta; la dissonanza che si viene a creare fra lo splatter di diretta emanazione “tromiana” e l'innocenza naif di un “Ka-Pow!” che sembra disegnato da un bambino di sei anni è piacevolmente spiazzante.
Eppure, Super condivide lo stesso destino del già citato Defendor, un altro film che, malgrado gli sforzi di un Woody Harrelson da standing ovation, non riusciva ad impennarsi tentennando fra diversi registri narrativi. A prescindere dal fatto che la pellicola di Gunn viene proposta fuori tempo massimo quando ormai il suo pubblico potenziale potrebbe già aver provveduto per vie traverse alla sua visione, oltretutto in una piazza, quella italiana, dove a volte anche dei Marvel movie dal budget stratosferico e dal battage pubblicitario martellante ed onnipresente faticano ad imporsi, il rischio oggettivo è quello di scontentare un po' tutti con una storia che ammicca a diversi target di pubblico senza accontertarne nessuno.