[Cannes 66] Shield of Straw, la recensione
Un milionario mette una taglia sulla testa di un killer e tutto il paese cerca di ucciderlo mentre i poliziotti devono assicurarsi che non accada e Miike filma. Che dire di più?
Il cadavere di una bambina viene ritrovato in un pozzo, martoriato e sporco di seme maschile, è la figlia di un milionario che mette sul giornale un'inserzione nella quale promette una ricompensa smodata a chi uccida (seguendo certe regole) l'assassino, la cui identità è nota perchè già in mano alla polizia. Un gruppo di poliziotti scelti dovrà scortarlo attraverso un intero paese (e parte della polizia stessa) che lo vuole uccidere. A filmare tutto ciò Takashi Miike.
Nonostante un impianto da B movie d'altri tempi Shield of straw ha un inusuale moralismo esposto e sbandierato, bilanciato dalla volontà di ferro con la quale il regista mette alla prova i suoi personaggi ed esplora le radici del marcio. Non è un western urbano come potrebbe sembrare dalla trama, non c'è l'esplorazione dei grandi valori e l'affermazione dell'umanità in un ambiente selvaggio ma più uno scontro di intelligenze e valori.
Da una parte sembra quindi esserci un'ode al massacro, alla violenza fine a se stessa e dall'altra parte della barricata la domanda tipica del genere: fino a dove è giusto contenere la spinta umana verso una giustizia immediata, quella dell'occhio per occhio, e fino a dove invece è importante mantenere l'ordine della giustizia? Appositamente Miike provoca in ogni modo la sete di sangue degli spettatori, deumanizza il killer e offre mille buoni motivi per farlo fuori.